Fate spazio nel pantheon dello sport italiano. Lì, accanto agli eroi del calcio di Bearzot o al Settebello di Rudic o alla Generazione di Fenomeni, va ritagliato un posto d’onore per le fuoriclasse della pallavolo di Julio Velasco. La doppietta leggendaria Olimpiadi-Mondiali, infarcita di due Nations League, è un’iscrizione d’ufficio nella storia dello sport del nostro Paese. L’accoppiata è resa ancora più epica dall’aver sfatato due tabù che pesavano come macigni: quello olimpico, mai conquistato prima di Parigi, e quello iridato, vinto una sola, lontanissima volta nel 2002, quando molte di queste ragazze erano bambine. Per anni questa Nazionale ha sofferto la pressione velenosa che imponeva la pallavolo italiana. Il dovere non solo di rappresentare un movimento nazionale fortissimo ma anche di esserne la ciliegina. Una presunta forza diventata debolezza nei momenti decisivi, una prigione dorata da cui si poteva uscire soltanto con una chiave.
Eccola: Julio Velasco. Un maestro, un guru della pallavolo italiana ma anche... un argentino. Uno “abbastanza straniero” da non sentire il peso di decenni di ansie tricolori ma anche “sufficientemente italiano” per comprendere le nostre paranoie. Velasco ha tranquillizzato una generazione dal talento purissimo, liberandola dalla zavorra del passato che, via via che diventava presente, si faceva più ingombrante. Ha restituito loro la pura gioia del gioco anche nei momenti in cui la gioia del gioco proprio non esiste, come quelli vissuti in semifinale contro il Brasile e in finale contro la Turchia. Le azzurre sono uscite dai time-out di Velasco con il sorriso in volto, anche quando era stato sfoderato il bastone in luogo della carota.
Mondiali pallavolo, l'Italia di Velasco in finale: rimonta epica, le azzurre schiacciano il Brasile
L'Italia di Julio Velasco vola in finale dei Mondiali di pallavolo femminile. Le azzurre hanno vinto una battaglia d...Questa squadra entra nella leggenda anche perché ha saputo vincere in due modi opposti, dimostrando una completezza quasi soprannaturale. A Parigi, sull’onda di un’estate perfetta, ha dominato. È stata una sinfonia, un’esplosione di entusiasmo debordante, un mese trascorso in quella che gli americani chiamano “la zona”, dove ogni giocata è istintiva, perfetta, inarrestabile. Quello fu un trionfo di superiorità tecnica, una supremazia schiacciante. In Thailandia, al contrario, è stata una vittoria di sofferenza, di resilienza, di puro carattere, come aveva annunciato per tempo il visionario Julio. È stata durissima. La semifinale contro il Brasile, altro tabù storico, e la finale contro una Turchia stellare sono state due battaglie campali, vinte al logorante tie-break del quinto set. L’Italia ha saputo soffrire, ha incassato parziali persi per un soffio e ha avuto la forza di rialzarsi anche dopo set completamente buttati come quelli contro le turche.
E sarebbe facile pensare che, nelle difficoltà, sia bastato aggrapparsi alle fuoriclasse, a Paola Egonu su tutte. Invece no. Questa è stata la vittoria del collettivo, dei dettagli che fanno la storia. È stata la vittoria di Antropova, la non-riserva che piazza due muri decisivi, non la schiacciata che tutti si aspettano da lei. È stata la vittoria di una Sylla in stato di grazia difensivo ed emotivo, prima che offensivo. È stata la vittoria di Fahr, capace di azzerare ogni difficoltà al muro dei primi quattro set per poi alzarne un paio nei punti finali. L’equazione è sotto i nostri occhi. Se Parigi è stato un successo tecnico e la Thailandia è stato un trionfo mentale, la somma non dà una semplice vittoria: dà la completezza. Alcune squadre nella storia dello sport italiano possono dire di essere state perfette in un dato momento, altre di essere state fortissime, ma poche, forse nessuna, di essere stata così completa.