Perché all’estero è più facile fare figli e allo stesso tempo avere una vita professionale? A questa domanda, tutt’altro che scontata, è possibile rispondere almeno in parte analizzando i più recenti dati forniti dall’Ocse e dall’Istat. Partiamo dai fatti: in Italia meno di una donna su due lavora (46,1%) contro un tasso di occupazione femminile che nei Paesi sviluppati è in media del 58%, ma che nei Paesi nordici tocca il 70% e in Germania e Francia è comunque superiore di 10 punti percentuali rispetto al nostro Paese. Eppure proprio nei Paesi dove le donne lavorano di più si fanno anche più figli: al Nord Europa (1,8 figli per ogni donna) ma anche in Francia, Irlanda e Stati Uniti (2 figli per donna in media, contro 1,4 dell’Italia). Questo perché, numeri alla mano, un nucleo famigliare con un doppio reddito ha maggior possibilità di spesa e quindi i costi per il mantenimento di uno o più figli sono più facilmente sostenibili. Ma anche perché dove il tasso di occupazione femminile è superiore anche la crescita economica lo è, e quindi uno Stato ha maggiori introiti da devolvere poi, in parte, alle politiche sociali e per la famiglia. I più recenti studi – come quello della Banca d’Italia (2009) - dimostrano infatti che una mancata presenza femminile nel mercato del lavoro che è anche una perdita economica, pari al 6,5% del Pil. Stime condivise dagli stessi industriali: Emma Marcegalia ha riconosciuto la gravità del problema, stimando che la perdita, oltre che in termini di capitale umano è del 7% del Pil (se l’occupazione femminile fosse allineata con la media europea). Lo snodo principale nel rapporto tra donne e lavoro è proprio la maternità. In Italia il tasso di occupazione femminile si riduce drammaticamente se la donna diventa anche mamma: quasi una donna su tre (27,1%) lascia dopo la nascita del primo figlio, e il dato peggiora ulteriormente se la famiglia si allarga. In Europa invece la differenza, il divario tra tasso di occupazione femminile e materna è ridotto: in Francia per esempio le differenze tra tassi di occupazione delle donne senza figli, con un figlio e con 2 figli sono limitate, e lo scarto si evidenzia a partire dal terzo figlio. Ma si tratta di un gap occupazionale - che di media è di 20 punti percentuali – provvisorio, che si riduce appena i figli frequentano le elementari. Quello che colpisce invece dell’Italia – analizzando i dati dell’Ocse contenuti nel “Gender Brief”, documento pubblicato questa primavera – è che una donna che esce dal mercato del lavoro a causa della maternità difficilmente ci rientra, anche quando i figli sono più grandi. Alla base di questi dati c’è prima di tutto la mancanza di infrastrutture: in Italia accessibilità agli asili nido è ferma al 6% dei bambini 0-3 anni (in confronto al 44% della Norvegia e al 40% della Svezia). Eppure l'incremento del numero dei nidi del 10% potrebbe far aumentare la probabilità di lavorare delle donne tra il 7% e il 12% (Fonte. Del Boca, 2008). Questo dato sottolinea un triste primato: l’Italia è ultima in Europa per fondi dedicati alle politiche famigliari. Se infatti circa un terzo del Pil viene speso per le politiche sociali in generale, in Italia solo il 4,5% del totale di queste spese viene dedicato alla famiglia, contro una media dell’8% dei Paesi industrializzati. Altro elemento determinante è la suddivisione dei carichi di cura: le donne italiane dedicano a casa e famiglia più del doppio del tempo degli uomini (fonte Istat) e questo le obbliga ad impegnarsi su più fronti e di qui la necessità a conciliare gli impegni. Conciliazione che spesso non è possibile perché le forme flessibili di lavoro in Italia sono poche – quasi esclusivamente il part-time – e ancora poco utilizzate. In base ai dati Ocse solo un terzo delle imprese nel nostro Paese (il 34%) concede la possibilità di rimodulare il proprio impegno professionale e questa possibilità è sostanzialmente circoscritta alla flessibilità in ingresso e in uscita. Ma se in Italia solo una donna su quattro tra quelle che lavorano ha un part-time (fonte Isfol 2009), all’estero è uno strumento molto diffuso ed apprezzato, che riguarda circa il doppio delle professioniste (48% in media nei Paesi industrializzati). Eppure nel nostro Paese un aumento del 10 % del part-time potrebbe far crescere la probabilità di essere occupata dal 5% al 10% (fonte: Del Boca, 2008) e questa necessità di conciliazione dei tempi – il così detto work/li balance – è molto sentito. In base ad un’indagine europea (Eurobarometro Flash EB 247) nei Paesi del Sud Europa - l’Italia è terza dopo Grecia e Spagna – questo binomio è definito “molto problematico”.
