L'editoriale
di Maurizio Belpietro
Devo confessare una colpa: sono io ad aver dato il via alla giostra di dichiarazioni di Massimo Ciancimino. Se non fosse stato per un'intervista che gli pubblicai quand'ero direttore di Panorama, le Procure di Palermo e Caltanissetta non se lo sarebbero filato di striscio, né come pentito né come collaboratore. Al più lo avrebbero condannato per riciclaggio, lasciandolo qualche anno al confino, come già avevano fatto i giudici dopo avergli requisito alcune centinaia di migliaia di euro di quello che consideravano il tesoro di don Vito. La storia dell'erede del sindaco di Palermo, il politico che in combutta con le cosche consentì la devastazione urbanistica della città siciliana, per quel che mi riguarda comincia nel settembre del 2007. All'epoca dirigevo il Giornale e lui telefonò in redazione chiedendo un incontro: disse che avendomi visto in tv s'era fatto l'idea che sarei stato ad ascoltarlo. Venne e cominciò a raccontarmi una vicenda contorta, d'una società posseduta a mezzo da suo padre e da gente legata a certi giudici. Ce l'aveva con la Procura, che gli aveva sequestrato dei soldi e lo voleva sbattere in prigione. Sosteneva che il denaro era pulito, mica frutto di riciclaggio o di proventi mafiosi. Parlava e parlava. Raccontava anche di suo padre, dell'ingegner Lo Verde, che poi era Provenzano, del patto tra lo Stato e la mafia. Per convincermi mi mostrò dei fogli scritti a mano con una matita: appunti di suo padre, diceva. Niente di straordinario, ma promise di farmene vedere altri la volta successiva. Quando se ne andò, dopo avermi stordito con mille parole, mi lasciò le carte. Quello fu il primo di una serie di incontri, che continuarono anche dopo che ebbi lasciato il Giornale per Panorama. E proprio sul settimanale della Mondadori, nella primavera del 2008, uscì un'intervista in cui Massimo Ciancimino raccontava del famoso papello, ovvero delle condizioni che Cosa nostra aveva dettato allo Stato per smetterla con le stragi, ma anche di tutti i rapporti che suo padre intratteneva con i picciotti. Uscita l'intervista i pm siciliani, che da sempre avevano sottomano il figlio di don Vito, si svegliarono e fecero a gara per ascoltarlo. Anzi, sospettando gli uni degli altri, quelli di Caltanissetta contro quelli di Palermo, iniziarono a inseguirlo per farsi dare le carte che lui diceva di custodire. Un giorno venne anche a riprendersi quelle che mi aveva dato. Ma le Procure volevano il papello e sospettando che lo tenesse nascosto all'estero, una volta lo pedinarono anche in Francia e appena tornato in Italia lo fermarono perquisendogli la macchina. O almeno questo è ciò che lui racconta, senza risparmio di dettagli. Perché se c'è una cosa che lo contraddistingue è che Massimo Ciancimino una volta deciso di parlare non è di poche parole. Anzi, in questo non somiglia al padre, uno che come un vero boss non parlava mai e i suoi segreti se li è portati nella tomba. Visto che Massimo è così chiacchierone in queste ore mi sono chiesto più volte perché non mi abbia parlato mai di Marcello Dell'Utri e neppure dei soldi della mafia usati per costruire Milano 2. E sì che mi ha narrato tutte le sue gesta, perfino quelle amorose, di quando il genitore di una ragazza che usciva con lui praticamente proibì alla figlia di vederlo appena sentito il cognome. E pure quelle di imprenditore nel settore dei mobili e del gas. Ma sul segretario di Berlusconi e sui suoi contatti con la Cupola non ha mai aperto bocca. Possibile che lo abbia fatto perché immaginava che io avessi rapporti col Cavaliere? Possibile, ma visto che in quel periodo aveva in testa di scrivere un libro e intratteneva rapporti anche con giornalisti dell'Espresso poteva confidarsi con loro. E invece niente. Silenzio pure con loro. Forse aspettava l'occasione giusta, magari di essere di fronte a una corte di magistrati, per sparare il colpo grosso? Oppure cercava l'effetto mediatico? Forse. O più probabilmente cerca di difendere il suo patrimonio, quello che il padre ha accumulato in tanti anni di traffici con la mafia, e che lui ancora custodisce in qualche banca. So per certo, perché me lo ha raccontato lui, che don Vito quando aveva bisogno di soldi si faceva un viaggio in Svizzera: prendeva il treno, accompagnato da Massimo, e saliva al Nord. Il denaro dev'essere ancora lì, appena di là dal confine oppure in Lussemburgo. È il tesoro che preme a Massimo. A lui interessa di salvare quello. Probabilmente spera in un salvacondotto dei giudici che gli consenta di mettere al riparo il patrimonio senza doverlo restituire allo Stato. In cambio è pronto a raccontare tutto quello che sa di don Vito e dei suoi rapporti con la mafia. E probabilmente anche quello che non sa. Anzi, quello che non sa è ciò che gli viene meglio.