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L'editoriale

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di Maurizio Belpietro

Tatiana Necchi
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Fini alza bandiera bianca. Lo fa a modo suo, cercando di conservare quell'arroganza che gli è tipica e che lo porta a impartire lezioni anche quando è nella polvere, ma lo fa. Dei nove minuti in cui ha cercato di giustificare la svendita di Montecarlo, l'unico passaggio rilevante è l'appello a fermarsi rivolto al premier, un messaggio chiaro, una resa con richiesta di onore delle armi: ammetto che ho un po'  sbagliato, e forse sono stato un ingenuo, ma mettiamoci una pietra sopra e in cambio non faccio cadere il governo. A questa mossa il presidente della Camera è arrivato dopo settimane in cui si era mostrato sprezzante nei confronti di chiunque gli chiedesse di far luce sulla oscura vicenda. Fino all'altro ieri rispondeva beffardo e minaccioso alle sollecitazioni di chiarezza, lasciando che i suoi pretoriani sparassero a zero in tv e sui giornali a chiunque s'azzardasse a insinuare il dubbio che il cognato fosse il vero proprietario.  E sia a Mirabello sia  da Mentana assicurò che nel giro di poche settimane, giusto il tempo di ottenere l'archiviazione dell'inchiesta della Procura di Roma, si sarebbe divertito. In realtà il sorriso gli si è spento sulle labbra quando il ministro della Giustizia di Santa Lucia ha confermato che l'appartamento è di Giancarlo Tulliani. Così, dopo una giornata in cui ha sperato di potersi aggrappare alle dichiarazioni farlocche di un avvocato di Vicenza, la terza carica dello stato si è decisa al gran passo, ovvero ammettere che con la casa della contessa Colleoni qualche pasticcio è stato commesso. Ovviamente la confessione è minimalista. Il presidente della Camera trasforma tutto in una faccenda privata, ridimensionando perfino i metri quadrati dell'appartamento di Montecarlo, ridotti a soli 50-55, quando è noto che sono quindici in più. Fini nega che siano stati compiuti reati, che ci siano appalti o tangenti, riconoscendo  al massimo solo una leggerezza, che lo porta a dare atto di aver peccato, ma solo di ingenuità. E dopo aver ostentato sicurezza, negando e facendo smentire dai suoi uomini che il cognato fosse il vero proprietario dell'abitazione, ammette candidamente che non sa  se Tulliani ne è il padrone, manifestando qualche dubbio sulla versione del fratellino di Elisabetta. Così il paladino delle istituzioni, l'uomo che si richiama al senso dello Stato, vorrebbe chiudere la faccenda, barattando il silenzio sulla sgradevole questione immobiliare con l'appoggio al governo. In realtà le sue spiegazioni non spiegano nulla e semmai allungano altre ombre sul caso. Tanto per cominciare, non si capisce perché Gianfranco abbia atteso tanto per rivelare una cosa così banale come «Non so nulla». C'era bisogno di aspettare due mesi per sentirgli spiegare che non conosce l'identità  della persona a cui ha venduto la casa? Non poteva dirlo subito? Fini poi dice che il prezzo fu fissato dai suoi uffici. Ah sì? E quali sono questi uffici? Chi decise di non tener conto delle altre offerte e di fare uno sconto dell'ottanta per cento all'acquirente? Inoltre aggiunge che nel Principato è normale fare affari con società offshore senza sapere chi c'è dietro. Vero, ma questo riguarda Monaco. In Italia al contrario esiste una normativa antiriciclaggio in base alla quale la società o l'associazione che fa affari con una offshore deve accertarsi di chi sta dietro il paravento fiscale. Dunque An e il suo presidente dovevano appurare l'identità dell'acquirente, pena la violazione della legge. Perché ciò non è stato fatto? È credibile che un partito venda a un estraneo, a un uomo mascherato che potrebbe rivelarsi anche un criminale? Ovviamente no.  E allora perché la terza carica dello Stato non ci dice chi è ma alza bandiera bianca? Perché sostiene che la faccenda è un affare privato, quando gli è noto che invece la questione è penale, tanto da aver indotto la procura ad aprire un fascicolo per truffa? Ovviamente queste domande sono senza risposta, perché il presidente della Camera, dopo aver esaltato la libertà di informazione (ma solo quella che non è contro di lui) ha preferito confezionarsi un video in casa, sfuggendo ai quesiti. I quali vorrebbe che non gli fossero più posti e per questo alza bandiera bianca, invocando uno stop. Quando dice «fermiamoci tutti», Gianfranco pensa alla stampa, a Libero e al Giornale. Sono i cronisti quelli che vorrebbe fermare, convinto che basti un gesto di Silvio Berlusconi per spegnerne la curiosità. Non so come risponderà il premier a quest'appello. Posso solo dire che le inchieste e gli articoli di Libero non sono nella disponibilità del presidente del Consiglio e, per quel che ci riguarda, continueremo a informare i nostri lettori di ciò che scopriremo, tanto che oggi pubblichiamo una decisiva conferma alle parole del ministro della Giustizia di Santa Lucia. Mettendomi nei panni del Cavaliere, il quale ha da far quadrare la maggioranza, mi sono anche domandato se ci sia da fidarsi dell'offerta di pace. Mi sono risposto di no. Come si può fare assegnamento su chi promette lealtà, mentre in privato asserisce di essere pronto a tutto pur di liberare l'Italia dal premier, come ha riportato senza alcuna smentita “La Stampa”? Fossi davvero in Berlusconi, non avrei dubbi: dopo il discorso di ieri e le accuse dell'altro ieri, direi a Fini di dimettersi. L'ingenuità in politica si può perdonare, la falsità no.    

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