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Danze tribali nel duomo di Napoli: il precipizio del dialogo interreligioso

Andrea Cionci
Andrea Cionci

Storico dell'arte, giornalista e scrittore, si occupa di storia, archeologia e religione. Cultore di opera lirica, ideatore del metodo “Mimerito” sperimentato dal Miur e promotore del progetto di risonanza internazionale “Plinio”, è stato reporter dall'Afghanistan e dall'Himalaya. Ha appena pubblicato il romanzo "Eugénie" (Bibliotheka). Ricercatore del bello, del sano e del vero – per quanto scomodi - vive una relazione complicata con l'Italia che ama alla follia sebbene, non di rado, gli spezzi il cuore

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“Vidi che molti pastori si erano fatti coinvolgere in idee che erano pericolose per la Chiesa. Stavano costruendo una Chiesa grande, strana, e stravagante. Tutti dovevano essere ammessi in essa per essere uniti ed avere uguali diritti: evangelici, cattolici e sette di ogni denominazione. Ma Dio aveva altri progetti". Così profetizzava, già nel 1823, la beata Katharina Emmerick, mistica e veggente beatificata da San Giovanni Paolo II. Chissà quale espressione si sarebbe dipinta sul viso ascetico della monaca tedesca se avesse avuto modo di assistere alle danze tribali indù che si sono svolte a Ferragosto, per la Festa dell’Assunta, nientemeno che nella cattedrale di Napoli. Tamburi martellanti, vezzose odalische e un massiccio sciamano che si dimenavano sotto le splendide volte barocche, rutilanti di ori e di reliquie, nel cuore caldissimo del cattolicesimo partenopeo (QUI IL VIDEO).

Le mascherine hanno celato alcune facce allibite tra i fedeli napoletani, ma ormai, dopo l’adorazione della dea pagana Pachamama in Vaticano, queste iniziative non fanno più nemmeno notizia. Ormai solo fughe in avanti “catto-dadaiste” come le aspersioni di acqua benedetta impartite con lo spazzolone del water, come quella di don Peter Leick a Treviri (QUI L'APPROFONDIMENTO), riescono a produrre un tenue palpito di sdegno in un popolo cattolico che assiste passivamente, tranne rare eccezioni, allo smantellamento della propria religione.

Del resto, la cattedrale di Napoli già da anni, a favore di telecamera, viene adibita a taverna con la distribuzione di pizza e porchetta per i poveri, come se l’arcidiocesi del card. Crescenzio Sepe non disponesse di altri comodi locali per offrire buoni pranzi ai bisognosi senza bisogno di insozzare di briciole e sughi il tempio dedicato a Maria Assunta.

Il rispetto per il sacro è ormai roba demodé e non è più chic parlare dell’aldilà, di Paradiso, Inferno e Purgatorio: tutto depennato in nome della pancia piena, qui e ora. Dopo, chissà.

Cene, pranzi, concerti, sfilate di moda, spettacoli circensi, persino il congresso dei radicali … Nelle chiese di oggi si combina di tutto, spesso con la scusa demagogica dell’accoglienza.

Tuttavia, i riti tribali della danza indù si inseriscono in un altro sfruttatissimo filone: il cosiddetto “dialogo interreligioso” il quale – sarà impopolare dirlo -  non ha obiettivamente più alcuna ragione di essere. Una fase di scambio dialettico con gli altri monoteismi poteva svolgere una funzione di CONOSCENZA RECIPROCA all’epoca del Concilio Vaticano II, magari individuando alcune norme di morale naturale in comune con le altre fedi, ma oltre non si può andare. In sessant’anni di dialogo, ormai si è stracapito quale sia la natura delle altre religioni ed è appurato che tali rispettabilissime credenze sono del tutto incompatibili con la fede cattolica. “Io sono la via, la verità e la vita. Nessuno viene al Padre se non per mezzo di me” ha detto Gesù. Punto. Per i cattolici, Dio non può essere la “versione customizzata per gli occidentali” di Javeh, di Allah, o della Trimurti: è, invece, il Dio trinario che si è incarnato in Gesù Cristo, nel seno della Vergine Maria. Caratteristiche ben precise, rivelate di persona, a prezzo della croce. Per chi è cattolico, la verità non negoziabile è questa e – con tante scuse - non ci può essere alcuna commistione con nessun’altra fede.

L’unica alternativa, proseguendo sulla strada di un estenuato dialogo interreligioso, infatti, non può essere che la ricerca di una divinità indistinta e comune che si sarebbe manifestata anche ad altri popoli, sotto altri nomi. Per forza di cose, i minimi comuni denominatori con le altre fedi non potranno che essere una generica attenzione all'ecologia, un amore da Baci Perugina, una fitta nebbia sui destini dell'anima e una "fraternità universale" al gusto di compassi e grembiulini.

Ma questa faccenda, appunto, si chiama “apostasia”.

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