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Fino all'ultimo giorno: la guerra giapponese dei sommergibili Cappellini e Torelli

Andrea Cionci
Andrea Cionci

Storico dell'arte, giornalista e scrittore, si occupa di storia, archeologia e religione. Cultore di opera lirica, ideatore del metodo “Mimerito” sperimentato dal Miur e promotore del progetto di risonanza internazionale “Plinio”, è stato reporter dall'Afghanistan e dall'Himalaya. Ha appena pubblicato il romanzo "Eugénie" (Bibliotheka). Ricercatore del bello, del sano e del vero – per quanto scomodi - vive una relazione complicata con l'Italia che ama alla follia sebbene, non di rado, gli spezzi il cuore

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Per la maggior parte dei 3.430.000 militari italiani, la guerra finì l’8 settembre 1943; per i 140.000 dell'Esercito cobelligerante del Sud e per gli 850.000  combattenti di Salò terminò con la resa della Germania l’8 maggio ’45, ma uno sparuto gruppo di nostri marinai depose le armi solo il 2 settembre 1945, con la formalizzazione della resa del Giappone che era stata già preannunciata, pure, dal discorso radiofonico di Hirohito due settimane prima, il 15 agosto.

E’ la storia dei sommergibili “Comandante Cappellini” e “Luigi Torelli”, sulla cui tolda sventolarono ben tre bandiere: il tricolore con lo scudo sabaudo, la svastica e infine il sol levante rosso in campo bianco. Non basta: l’ultimo aereo americano abbattuto della guerra si deve, secondo numerose testimonianze, proprio alla mitragliera di uno di questi. L’episodio si verificò nella baia di Kobe esattamente 75 anni fa, il 22 agosto del ’45.

La carenza di materiali strategici era stata, per tutto il conflitto, un’ossessione delle potenze dell’Asse. I tedeschi avevano stretto un accordo coi giapponesi per barattare prodotti chimici sofisticati (chinino e mercurio) in cambio di gomma grezza, stagno e metalli rari. Visto però che le navi per l’estremo Oriente venivano spesso affondate dagli Alleati, il comandante della Kriegsmarine, Großadmiral Karl Dönitz, propose di impiegare per il trasporto sommergibili atlantici italiani, più capienti e adatti alla lunga navigazione, ma meno agili degli U-Boot tedeschi, che sarebbero stati forniti, in egual numero, all’Italia. Lo scambio fu gradito da tutti i cobelligeranti, così furono messi a disposizione della Germania cinque nostri sommergibili che presero il nome di ”Flotta del Monsone”: due vennero affondati in Atlantico mentre altri tre, il Giuliani, il Torelli e il Cappellini, proseguirono verso l’estremo Oriente con il loro carico. Dopo un viaggio lungo e difficile, l’8 settembre ’43 colse i primi due a Singapore, il terzo a Sabang, in Indonesia. I giapponesi imprigionarono i nostri equipaggi, ma dopo qualche settimana di dura prigionia, la costituzione della Repubblica sociale italiana permise alla gran parte dei marinai, escluso un buon numero di ufficiali che scelsero la fedeltà al Re, di proseguire la guerra con l’Asse. I tre sommergibili passarono, quindi, al Terzo Reich che li nominò U.IT. (italienische Unterseeboot) 23, 24, 25, con equipaggi misti italo-tedeschi.

L’U.IT 23, ex-Giuliani, fu affondato nello Stretto di Malacca nel ’44 mentre il 24, ex-Cappellini, e il 25, ex Torelli, proseguirono le loro missioni fino all’8 maggio ’45, quando la Germania depose le armi.

Anche stavolta gli equipaggi vennero prudenzialmente internati dai nipponici, ma un paio di mesi dopo, con l’integrazione dei sommergibili nella marina giapponese, alcuni marinai tedeschi e una ventina di italiani scelsero di continuare la guerra, stavolta al servizio dell’Imperatore Hirohito. Una volta issata la Kyokujitsu-ki, la bandiera col sole nascente, i battelli vennero rinominati I-503 e I-504 ed essendo molto usurati vennero ormeggiati nel porto di Kobe per essere sottoposti a lavori di ripristino. Né dopo le atomiche, né dal cantiere rifiutarono il combattimento: durante il bombardamento americano del 22 agosto su Kobe, l’equipaggio italiano del Cappellini (o del Torelli, secondo altre fonti) con la mitragliera Breda da 13,2 mm, abbatté un bombardiere Usa B-25 “Mitchell”. Fu con ogni probabilità l’ultimo successo militare nello spirito del Patto tripartito.

Come per tutti i militari della RSI, anche questi marinai furono privati, dopo la guerra, del grado e della pensione. Nota è la scelta del sergente motorista Raffaello Sanzio che, per protesta verso il trattamento, scelse di rimanere in Giappone, dove si sposò e cambiò il proprio cognome con quello della moglie, Kobayashi.

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