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Il Savoia-Aosta che sfidò a duello il principe francese per salvare l'onore d'Italia

S.A.R. il duca Amedeo racconta di come lo zio Vittorio Emanuele, conte di Torino, batté il principe d'Orléans

Andrea Cionci
Andrea Cionci

Storico dell'arte, giornalista e scrittore, si occupa di storia, archeologia e religione. Cultore di opera lirica, ideatore del metodo “Mimerito” sperimentato dal Miur e promotore del progetto di risonanza internazionale “Plinio”, è stato reporter dall'Afghanistan e dall'Himalaya. Ha appena pubblicato il romanzo "Eugénie" (Bibliotheka). Ricercatore del bello, del sano e del vero – per quanto scomodi - vive una relazione complicata con l'Italia che ama alla follia sebbene, non di rado, gli spezzi il cuore

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C’è stato un tempo in cui dileggiare gli italiani poteva costare caro, anche un buco nella pancia. E’ la vicenda dimenticata dello storico duello fra il conte di Torino e il principe d’Orléans. Son passati 150 anni dalla nascita di Vittorio Emanuele d’Aosta, nipote di re Umberto I e fratello di Emanuele Filiberto - il “Duca Invitto”, comandante della III Armata durante la Grande Guerra - e di Luigi Amedeo, duca degli Abruzzi, esploratore e scalatore di fama mondiale.

Il conte di Torino dedicò tutta la vita alla Cavalleria, l’”arma nobile” per eccellenza, fino a diventarne il comandante. La sua esistenza fu un po’ oscurata da quella dei fratelli, ma anch’egli conobbe  l’acclamazione nazionale.

A un anno dalla tragica sconfitta di Adua (1896) subita dalle nostre truppe in Etiopia accerchiate dai 100.000 guerrieri di Menelik II, il principe ed esploratore francese Henri d’Orléans, dal suo viaggio in Abissinia, pubblicò il 3 luglio, sul giornale “Le Figaro” un articolo infamante, in cui accusava di viltà gli ufficiali italiani ancora prigionieri del Negus. In special modo, citava il 57enne generale Matteo Albertone, che, secondo lui, avrebbe innalzato un calice a Menelik, cosa poco credibile dato che il valoroso ufficiale non era molto incline ai compromessi, avendo già tentato il suicidio in prigionia per l’onta della sconfitta. Albertone replicò, infatti, a mezzo stampa chiedendo al Ministero della Guerra di essere congedato per avere “completa libertà di azione”, vale a dire, per sfidare a duello l’aristocratico francese, pratica proibita dalla legge.

Dato che era in gioco l’onore di tutta la classe militare  italiana, si interpose fra i due Vittorio Emanuele d’Aosta che era quasi coetaneo all’Orléans e suo pari per sangue reale. Quest’ultimo non poté rifiutare la sfida e il duello fu fissato per le 5 di mattina del 15 agosto 1897 nei boschi di Vaucresson, vicino Parigi.

La scelta dell’arma cade sulla spada, considerando la pistola  troppo borghese, quasi “da mariti traditi”. Padrini, il conte Leontieff e il conte Avogadro: al primo scambio, Orléans viene sfiorato al petto; il secondo si interrompe per un corpo a corpo con le cocce delle spade; alla terza ripresa il conte di Torino viene scalfito alla mano destra, i francesi vorrebbero chiudere in pareggio, ma egli chiede di proseguire; la quarta viene interrotta perché la lama del principe si spezza; alla quinta, infine, con una micidiale parata e risposta, Vittorio Emanuele trafigge l’addome dell’avversario, sopra l’inguine. Una ferita non mortale, ma abbastanza grave da porre fine al duello, durato 26 minuti.

L’Orléans volle mettersi seduto per stringere cavallerescamente la mano all’Aosta che, poche ore dopo, riprese il treno per Torino.

L’accoglienza in Patria fu trionfale e re Umberto mandò questo telegramma al nipote vittorioso: "Voglio essere il primo a felicitarti con tutto il cuore dell'esempio da te dato e del successo riportato".

Seguì quello di Giosué Carducci: "Mi permetta V.A.R. di salutare commosso e plaudente il valoroso campione dell'esercito e vindice del nome italiano, ora e sempre" e quello, commovente, di un tale Nicolini, genitore di un caduto: "Ringraziando S.A. a nome del figlio caduto ad Adua".

Giovanni Pascoli scrisse anche un epigramma: «Io sentii nel mio cuore il minimo murmure, che era la gran voce del popolo italico; e diceva: "Conte di Torino, a fondo! Bravo! Hai vinto, ho vinto. Io sono un povero popolo. Ma principe italiano Voi solo sapete che io ho meritato di essere rappresentato da Voi".

Ci racconta, oggi, S.A.R. il duca Amedeo di Savoia-Aosta: “Io sono nato nel ’43 e lui morì tre anni dopo. Me lo ricordo, come in una fotografia sbiadita, in poltrona, a Bruxelles dove eravamo esiliati: era un Savoia vecchio stampo. Mia nonna Elena, sua cognata, pur essendo una Orléans, lo sostenne nel difendere l’onore d’Italia. Il suo gesto fu molto importante perché i nostri soldati, in Africa, si batterono sempre con coraggio”.

“Bisognava mostrare che la Casa Reale non si faceva condizionare da legami personali - aggiunge lo storico del Risorgimento Aldo A. Mola – e va ricordato che, all’epoca, il futuro re  Vittorio Emanuele III non aveva ancora figli: Emanuele Filiberto d’Aosta era quindi potenziale erede al trono e non poteva mettere a repentaglio, con la propria vita, la successione. Toccava al conte di Torino”.

Pochi sanno che le spade adoperate durante il duello sono conservate in una vetrina tappezzata di rosso nella Sala Caprilli del Museo Storico dell’Arma di Cavalleria di Pinerolo, uno dei musei militari più affascinanti e ricchi di memorie d’Italia.

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