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Nemmeno il Fascismo nel ‘43 censurava i compositori russi: riscopriamo "Onegin" di Tschaikowskij

Andrea Cionci
Andrea Cionci

Storico dell'arte, giornalista e scrittore, si occupa di storia, archeologia e religione. Cultore di opera lirica, ideatore del metodo “Mimerito” sperimentato dal Miur e promotore del progetto di risonanza internazionale “Plinio”, è stato reporter dall'Afghanistan e dall'Himalaya. Ha appena pubblicato il romanzo "Eugénie" (Bibliotheka). Ricercatore del bello, del sano e del vero – per quanto scomodi - vive una relazione complicata con l'Italia che ama alla follia sebbene, non di rado, gli spezzi il cuore

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“La musica è un linguaggio universale”; “la musica unisce i popoli in un abbraccio fraterno”; “chi ama la musica non può essere cattivo”, etc. Stupisce che, fino a ieri, a riempirsi la bocca di queste nobili frasi, fosse la maggioranza di quei direttori artistici che oggi, in tutto il mondo occidentale, cancellano senza pietà concerti di compositori come Tschaikowskij, Shostakovich, o Rachmaninov. Uno spettacolo desolante: il pensiero unico di una volta ha lasciato il posto a una becera “emozione unica” e tale opera di gretta, meschina ritorsione sull’arte, da qualche raro critico è stata definita un atteggiamento “fascista”. Peggio che andar di notte, ignoranza su ignoranza: basta infatti cliccare sull’archivio del Teatro dell’Opera di Roma consultando i titoli della stagione 1942-‘43. L’Italia di Mussolini era, allora, in guerra totale con l’Urss, un nemico non solo fisico, ma anche ideologico, incarnato dal Bolscevismo.

Eppure, tra dicembre ’42 e gennaio ’43, proprio mentre i nostri soldati affrontavano la disastrosa ritirata sul Don che ci costò 84.930 tra morti, dispersi e prigionieri e 29.690 tra feriti e congelati, presso il fascistissimo teatro dell’Opera di Roma andava in scena “Il principe Igor” di Aleksandr Borodin (5, 7, 10 gennaio), seguito, subito dopo, da “Kovancina” di Modest Petrovič Musorgskij (15, 17, 19 gennaio). Qualche mese dopo, appena terminata disastrosamente la Campagna di Russia, l’Opera di Roma metteva in scena Petruška e L’Usignolo del (vivente) Igor Stravinskij (16, 20 28 marzo 1943).

Quindi, va bene che oggi bisogna far scoppiare a tutti i costi la Terza guerra mondiale - e quindi l’odio e la delegittimazione del nemico devono spaziare a tutto campo (del resto, cosa c’è di meglio per riprendersi da una pandemia devastante?) - ma attenzione ai cortocircuiti: il rischio è quello di prestarsi a cocenti umiliazioni provenienti da quelle ideologie che vengono continuamente agitate come babau.

Proprio la grande musica classica (e non certo afono rockettino omosatanisteggiante) ci ricorda, invece, che anche in questo feroce bipede chiamato “uomo”, brilla una (tenue) scintilla divina, che questi sia italiano, tedesco, americano, russo o ucraino. Chi desidera la pace dovrebbe, quindi, spasmodicamente appigliarsi alla vera musica, l’arte che ammansisce le fiere, come ricorda il mito di Orfeo.

Peraltro, cancellare la cultura russa è cancellare quella europea, in buona parte italiana. Un’opera su tutte lo dimostra, l’Evgenij Onegin di Pëtr Il'ič Tschaikowskij del 1879 QUI, dal romanzo omonimo di Puškin: un capolavoro ispirato nettamente al repertorio italiano, per la cantabilità e il lirismo, che racconta la storia di Onegin (baritono) ricco dandy annoiato e cinico che rifiuta l’amore ingenuo e appassionato di una giovane nobile di campagna, Tatiana (soprano). Dopo il rifiuto e il duello mortale con l’amico poeta Lensky (tenore), Onegin scoprirà Tatjana ormai sposa di un maturo cugino principe e si accorgerà, troppo tardi, di amarla follemente. Un monumento al topos modernissimo dell’amore fuori sincrono, flagello dei nostri tempi che la promiscuità ha consegnato alla dittatura del desiderio. Conosciuto e amato in Russia tanto quanto la verdiana Traviata da noi, scopriamo che Onegin ne costituisce l’esatto, speculare opposto. Fra palazzi nobiliari e paesaggi campestri del primo Ottocento, i due melodrammi sono ambientati rispettivamente in Francia e in Russia, agli estremi longitudinari dell’Europa.

Allo stesso modo, i destini dei protagonisti sembrano specularmente opposti: la giovanissima Violetta verdiana, di umili origini, muore redimendosi dal peccato per un puro amore; viceversa, il nobile, adulto Onegin sopravvive, ma si danna per aver rifiutato l’amore sincero. In entrambe le opere, c’è una festa dove si consuma un tragico alterco che scatena un duello, anche se in Traviata viene ferito il barone cattivo e in Onegin muore il buono, l’amico poeta.

Spicca anche una figura chiave di anziano: da un lato, il borghese Germont, archetipo del grigio e mortificante benpensantismo borghese; dall’altro il principe Gremin il quale, rinnovato in ogni fibra da Cupido, si estasia per la giovane sposa che, pure, gli resterà fedele: “Tutte le età sono soggette all'amore” – canta Gremin nella sua splendida, commovente aria per basso QUI  : afflati ben diversi dall’”uomo implacabile” verdiano che spingerà Violetta a separarsi da suo figlio.

Le opere sono così complementari che non stupisce la nascita di una fantasiosa e suggestiva tesi: Puškin, ormai inviso alle autorità russe, avrebbe abbandonato il suo paese nel 1837, dopo aver inscenato la propria morte in duello, per ricomparire in Francia sotto le vesti di Alexandre Dumas, padre dell’omonimo autore de La Dame aux camelias: entrambi talentuosi scrittori “negri” (avevano nonni africani), franco-russofoni, fissati sui Moti decabristi.

E così, nel pieno e totale rispetto della vostra opinione su Putin, Zelensky e la guerra in corso (qualunque essa sia), il nostro invito è proprio quello di ascoltare il capolavoro di Tschaikowskij, come esercizio estetico-intellettuale per separare l’arte dalla bruta geopolitica, la musica dalla violenta partigianeria, il Belcanto dal chiasso mediatico per contemplare “la bellezza che salverà il mondo”. E questa frase – neanche a farlo apposta – viene da un romanzo di Dostoewskj.

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