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Padre Enzo Fortunato e gli imperativi categorici di fronte alla morte

Andrea Tempestini
Andrea Tempestini

Milanese convinto, classe 1986, a "Libero" dal 2010, vicedirettore e digital editor. Il mio sogno frustrato è l'Nba. Adoro Vespe, gatti, negroni e mr. Panofsky.

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"Le persone che ci hanno lasciato hanno vissuto il dramma di Cristo sulla Croce: con la solitudine, le ferite del corpo, l'abbandono di Dio sulla Croce. Queste tre cose devono rincuorare le persone, soprattutto i credenti. Hanno vissuto il mistero di Cristo che muore e risorge, aprite la finestra di casa e fate entrare un raggio di luce"
Padre Enzo Fortunato (Omnibus)

Scorrevo il mio feed su Twitter e mi sono imbattuto in queste parole. E mi hanno dato fastidio: questo probabilmente spiega il mio essere ateo. Nulla di male, per carità: si tratta di quella fede che non ho. E ciò che dice padre Enzo Fortunato spiega perfettamente perché non ho fede. Sono così schifosamente razionale (schifosamente, davvero) da non riuscire a trovare valide ragioni per le quali chi ha visto crepare qualcuno di coronavirus debba "rincuorarsi". Men che meno se queste ragioni sono "la solitudine, le ferite del corpo e l'abbandono di Dio sulla croce". Ma questa è con discreta evidenza l'idea di un analfabeta religioso, come me. E infatti ciò che più di queste tre ragioni spiega perché io non abbia fede sta nel "devono". Queste tre cose "devono rincuorare le persone", dunque tutte le persone, seppur "soprattutto i credenti". Una sorta di imperativo categorico che, di fronte alla morte, non finisce mai di stupirmi.

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