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La Cina boicotta H&M come aveva già fatto con Dolce&Gabbana

Il marchio svedese va in rosso

Daniela Mastromattei
Daniela Mastromattei

Daniela Mastromattei è caposervizio di Libero, dove si occupa di attualità, costume, moda e animali. Ha cominciato a fare la giornalista al quotidiano Il Messaggero, dopo un periodo a Mediaset ha preferito tornare alla carta stampata

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Da Pitti a Milano Unica da oltre un anno le principali manifestazioni italiane del settore moda e lifestyle sono state inghiottite dalla pandemia: chiuse al pubblico e impegnate a riprogettarsi in attesa che il governo si decida a dare un segnale per non far crollare del tutto il settore made in Italy per il quale siamo famosi in tutto il mondo. E dopo le prime avvisaglie adesso il malessere è profondo e si rischia grosso. 
Non se la passa meglio H&M che deve affrontare un primo trimestre 2021 in rosso per gli effetti della pandemia e dei lockdown in tutto il mondo. Il marchio di moda a basso costo ha infatti dichiarato di aver registrato una perdita netta di 1,07 miliardi di corone svedesi (122 milioni di dollari) nel periodo da dicembre a febbraio rispetto a un profitto di 1,93 miliardi di un anno prima. La società ha affermato che le misure e le restrizioni contro il Covid hanno portato alla chiusura temporanea di 1.800 negozi durante il trimestre.
E (ce l’aspettavamo) il crollo in Cina, dove H&M sta registrando le perdite maggiori, soprattutto  perché il gruppo è nel mirino per aver criticato Pechino sul presunto lavoro forzato nello Xinjang. E per essersi rifiutato di acquistare cotone proveniente da quella regione, dove la minoranza uigura sembrerebbe essere sfruttata, proprio nei campi di cotone. Tuttavia, «siamo determinati a riconquistare la fiducia dei nostri clienti e dei nostri partner commerciali in Cina», hanno dichiarato i vertici della società. «Perché «la Cina è un mercato molto importante per noi e il nostro impegno a lungo termine per il Paese rimane forte». 
Niente da fare: in questi giorni diverse piattaforme cinesi di e-commerce hanno escluso il colosso svedese dai marchi commercializzati. Nella parte orientale del Paese alcuni negozi sono stati chiusi: mosse che hanno il sapore della ritorsione. Nel 2020 la Cina ha rappresentato uno dei cinque mercati più importanti per H&M con il 5,2% delle vendite totali. Affari e questioni di principio si mischiano dunque, in una vicenda in cui gli accusati sono diventati accusatori, perché proprio i brand di fast fashion da sempre sono stati coinvolti da polemiche sullo sfruttamento del lavoro per la produzione dei loro capi.[TESTO] Ma H&M non è stato l’unico gruppo ad alzare la testa, anche marchi come Zara, Nike, Burberry, Fila, Hugo Boss e Muji hanno criticato Pechino. Le critiche non sono ammesse e l’humor non è contemplato (roba da inglesi), come insegnano Dolce e Gabbana che con i loro spot ironici hanno perso parte del mercato cinese. E forse non l’hanno più ripreso. 
 

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