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Una challenge borderline: 50 ore in Lamborghini e una vita spezzata

Iris Devigili Cattoni
Iris Devigili Cattoni

Ha una laurea in scienze storiche cui sono seguiti due master in Marketing, comunicazione e social media e in Marketing strategico. Da oltre dieci anni è consulente di marketing e comunicazione digitale ed è stata docente per i master post laurea alla Business School de Il Sole 24 Ore. Autrice del libro “Buyer Personas. Comprendi le scelte d'acquisto dei clienti con interviste e Modello Eureka!”, ha scritto diversi contributi per pubblicazioni di colleghi e amici. Si dedica alla scrittura e conduzione di trasmissioni televisive, modera dibattiti, presenta libri e coltiva la sua passione per l'uso della voce. Patita di sport, si divide tra running e padel.

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In questi giorni siamo stati testimoni di un incidente stradale drammatico, che ha causato la morte di un bambino di 5 anni, Manuel, e il ferimento della mamma e della sorellina. Ciò che ha reso ancora più tragico l’accaduto è il contesto nel quale si è verificato, ossia una challenge social. Le challenge social sono delle sfide lanciate sui social media che possono avere diversi obiettivi e finalità: coinvolgere altri utenti in una vera e propria gara, spingere alla partecipazione per cause benefiche, oppure essere fini a se stesse, volte al sensazionalismo e all’ “acchiappa click”.

La challenge che si stava svolgendo al momento dell’impatto tra la Lamborghini affittata dai promotori della sfida, gli youtubers TheBorderline e la Smart della mamma di Manuel, consisteva nel vivere per 50 ore all’interno di un’auto in movimento. In termini assoluti, una sfida di questo tipo non evidenzia elementi di particolare rischio, come avviene invece per altre challenge volte a portare il fisico allo stremo, con evidenti pericoli per chi le compie. Il rischio che io ravvedo in una challenge come quella lanciata da TheBorderline è legato alla stanchezza che un tempo così lungo alla guida, e in generale in un’auto, può provocare nel conducente. Ciò che invece non era insito nella sfida, ma che è quel quid che rende tutto più interessante e adrenalinico per chi vive la situazione e per chi la osserva, è l’auto di lusso e di grossa cilindrata, che per associazione diretta riporta alla velocità.

Ciò che ha aggravato enormemente le conseguenze dello schianto tra le due auto, infatti, è stata proprio l’alta velocità cui i ragazzi andavano – pare più di 110 km/h, anziché 30 km/h come da cartello stradale. Quello che dovrebbe far riflettere, a mio parere, è quanto soggiace a certe dinamiche social. Innanzitutto la spasmodica corsa ai followers. In questo non c’è solo vanità, comparazione e competizione con gli altri, ma anche logiche economiche. Tanto più elevato è il numero di followers che un account, o un canale YouTube come in questo caso, riesce ad ottenere, tanti più guadagni si riescono ad avere. Questi introiti sono generati dalle pubblicità visualizzate per ogni video e dall’interesse che i grandi marchi hanno nel far promuovere il proprio prodotto da coloro che vengono chiamati influencers. Quello dell’influencer, infatti, è un nuovo mestiere molto ambito dai giovani, che spesso vedono nella possibilità di guadagnare, creando contenuti social, il loro futuro lavorativo.

In questo nulla di male, è l’evoluzione della società, si tratta di una nuova professione che richiede impegno, dedizione, capacità, fantasia e ingegno. Il problema sorge invece quando la corsa ai followers fa perdere il controllo e il senso della misura; quando la percezione della realtà viene meno e si mescola con un mondo virtuale dove i pericoli si annullano, perché dopo un “game over” si riparte da capo senza conseguenze; quando la percezione dei rischi e dei pericoli viene a mancare perché sopraffatta da un senso di invincibilità che proprio la distanza dalla realtà provoca; quando i sentimenti vengono anestetizzati dall’assuefazione a contenuti forti e borderline che per i nativi digitali è normale fruire fin da età molto giovane.

Ed è qui che probabilmente nasce il peccato originale ossia il ruolo, mutato rispetto alle generazioni precedenti, della famiglia. Genitori forse disattenti, forse impreparati alle dinamiche dei social media, forse considerati dai figli troppo amici e troppo poco educatori. Va da sé che non si può generalizzare, ma ormai è sotto l’occhio di tutti che questo è un problema crescente. Nel caso dello youtuber che guidava la Lamborghini al momento dell’impatto, lo testimonia un video in cui la figura di suo padre assume un ruolo a mio avviso di non-genitore, che non si preoccupa dei messaggi diseducativi che lancia proprio con quel contenuto digitale. Da osservatrice, io colgo un’inversione di ruoli tra padre e ragazzo, il concetto di virilità associato alla supercar e alla velocità, la trasgressione delle regole guidando senza cintura di sicurezza.

Ad oggi i controlli sui file che vengono caricati online sono demandati alle piattaforme che li ospitano, ma è evidente che se gli algoritmi possono identificare contenuti violenti o sessualmente espliciti e bloccarli, più difficilmente riescono a individuare video che trasmettono messaggi apparentemente non pericolosi, ma che sull’essere umano possono alimentare comportamenti dannosi o comunicare messaggi negativi.

Da marketer che ha vissuto gli albori dei social, utilizzandoli per comunicare a scopi personali e aziendali, e che quindi li conosce bene, ritengo che si debba trovare il modo di arginare quella che spesso identifico come una degenerazione dei social media. Ritengo che si dovrà arrivare ad un allineamento della giurisprudenza con le dinamiche digitali, ma sicuramente è necessario un recupero di alcuni valori che la società di oggi sta poco a poco perdendo.

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