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Il Nome della rosa, un po' Sherlock un po' Trono di spade

La fiction tratta da Umberto Eco

Francesco Specchia
Francesco Specchia

Francesco Specchia, fiorentino di nascita, veronese d'adozione, ha una laurea in legge, una specializzazione in comunicazioni di massa e una antropologia criminale (ma non gli sono servite a nulla); a Libero si occupa prevalentemente di politica, tv e mass media. Si vanta di aver lavorato, tra gli altri, per Indro Montanelli alla Voce e per Albino Longhi all'Arena di Verona. Collabora con il TgCom e Radio Monte Carlo, ha scritto e condotto programmi televisivi, tra cui i talk show politici "Iceberg", "Alias" con Franco Debenedetti e "Versus", primo esperimento di talk show interattivo con i social network. Vive una perenne e macerante schizofrenia: ha lavorato per la satira e scritto vari saggi tra cui "Diario inedito del Grande Fratello" (Gremese) e "Gli Inaffondabili" (Marsilio), "Giulio Andreotti-Parola di Giulio" (Aliberti), ed è direttore della collana Mediamursia. Tifa Fiorentina, e non è mai riuscito ad entrare in una lobby, che fosse una...

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Il nome della rosa Foto: Il nome della rosa
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Il nome della rosa è stato il controverso livre de chevet di un paio di generazioni, compresa la mia. Per alcuni era un macigno editoriale, una sorta di Recherche proustiana incrociata coi polizieschi di Sherlock Holmes, con tanto di misteriosi omicidi in convento e pagine avvelenate di un libro sull'arte della commedia. Per alcuni, data la mole, era una palla terrificante. Per altri il libro di Umberto Eco rappresentava il capolavoro narrativo del secolo. Per me è stato, più che altro, un giallo appassionante, se si fa eccezione -se ben ricordo- per un lungo capitolo sulla descrizione maniacale di un portale, roba davvero da mangiarsi le pagine del libro (come fa, nel finale, il monaco Jorge, l'assassino che crepa a sua volta nelle fiamme dei suoi peccati). E il fatto che Raiuno, de Il nome della rosa proponga ora la versione seriale -lunedì prime time- mi ha un po' intimorito. Certo John Turturro nei panni di frate Guglielmo da Baskerville, citazione holmesiana- vale sicuramente l'interpretazione originale di Sean Connery del film di Jean-Jacques Annaud dell'86. Certo, le ambientazioni richiamano le atmosfere del libro miscelate a quelle del Trono di spade. Certo, rimane la coppia di protagonisti, Guglielmo e il novizio Adso da Melk, in originale voce narrante in virtù di un falso manoscritto ritrovato; e, certo, alcuni personaggi nuovi, come il Dolcino interpretato da Alessio Boni e la sua compagna Anna arrostita sul rogo ora permettono alla storia di dilatarsi oltre i confini del romanzo, e di uscire al di là delle mura dell'abbazia. E, certo, qui c'è Rupert Everett nei panni dell'inquisitore Bernardo Gui , e non sfigura nel paragone con l'originale F. Murray Abraham. In più affiora, qui, prepotente, l'elemento della detection, dell'indagine. Un' indagine complessa, tra segreti dei frati e misteri celati nella labirintica biblioteca dell'abbazia, da portare a termine prima dell'inizio della disputa tra la delegazione francescana e quella papale. Sicché sussistono, insomma, tutti gli elementi per fare della serie un grande successo internazionale sulla scia di Montalbano. Anche perché il debutto ha fatto il boom di ascolti: 6.501.000 telespettatori e il 27,4% di share. Ma. Ma c'è qualcosa che non mi torna, forse la sceneggiatura, oliatissima, ma che non ti prende il core. Cercherò di capire le puntate successive… Ps (nella seconda puntata, crollo d'ascolti...)        

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