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Sulla parete con gli Alpini: addestrarsi alla roccia e alla fiducia reciproca

di Giulio Bucchisabato 18 maggio 2019
3' di lettura

In un'Aquila bagnata dalla pioggia l’arrampicata su parete rocciosa inizia al chiuso, nel calore di una palestra non lontana dalla stazione. A primo acchito sembra tutto facile: dieci metri con appigli, materassi di gomma per attutire la caduta, l’istruttore che si raccomanda di fare leva sulle gambe e non sulle braccia. Insomma, l’arrampicata pare una passeggiata… in verticale, simile a quella allestita dall’Esercito a mo’ di gioco nel corso di alcune manifestazioni. Ma al 9° Reggimento Alpini dell’Aquila di ludico c’è davvero poco e l’idea di andare sù come l’Uomo Ragno svanisce una volta afferrato il primo sperone: con un “adesso che faccio” stampato in testa, infatti, l’aspirante rocciatore altro non può che seguire i consigli dell’istruttore e provare a metterli in pratica. Ma quant’è dura. “Leva sulle gambe, leva sulle gambe! Braccia distese, piede non di pianta, no di pianta di punta! O si perde aderenza!”. Dopo vari tentativi tutti arrivano alla vetta, compreso il giornalista alla sua prima esperienza con una parete sintetica; le cose si fanno più dure poco dopo quando si testa la resistenza su pareti inclinate in avanti e sulle quali, oltre all’equilibrio, si deve far forza su tutto il corpo per evitare di cadere. Nel frattempo il cielo si schiarisce, la pioggia cessa di battere e la colonna di automezzi fa rotta verso Paganica, piccolo comune fra i più danneggiati del sisma 2009 dove i segni della forza devastante della natura sono ancora evidenti. Pochi chilometri e si arriva al suggestivo Santuario della Madonna d’Appari, accanto al quale si apre l’omonima galleria, vero e proprio buco nella pietra grigia sormontato da una vecchia lapide del Ventennio, con tanto di fascio in bella vista. Il Defender rallenta e si ferma all’imbocco: si continua a piedi immersi in luoghi incontaminati e in un silenzio rotto solo dal passaggio di qualche auto e da un grido familiare: “Leva sulle gambe!” Sulla parete aspra un maresciallo tenta di raggiungere la cima. L’istruttore, un sergente sulla trentina, è fra i migliori della specialità alpina e tratta tutti gli allievi allo stesso modo: severo ma comprensivo, rispettoso del grado ma, nello stesso tempo, uno che se sbagli non lesina a fartelo presente. Il secondo allievo a salire è una alpina. Agile, inizia la scalata con facilità per poi fermarsi poco sopra: non trova gli appigli, è indecisa sul come andare avanti, il polpaccio inizia a tremare e la punta del piede ricorda una manopola di telegrafo. È a poco da terra ed è in sicurezza (per la quale l’attenzione degli alpini istruttori è maniacale), se scivola male che va resta ciondoloni sulla parete, eppure l’auto conservazione prende il sopravvento e, in un attimo, quella piccola quota diventa il K2. Una sensazione avvertita e condivisa anche dal reporter che scala qualche metro più in là, alternando lo sguardo fra sotto e sopra. Qual è il trucco? Imparare a fidarsi: la testa dice di non andare avanti perché presa dalla paura, dall’agitazione o dal non sentirsi all’altezza; la voce in basso ricorda tre punti cardine dell’addestramento: lucidità, ripensare a ciò che hai appreso e fiducia verso i commilitoni. Ecco, la fiducia: quella è la vera vetta verso la quale ci si inerpica e la più difficile da raggiungere, ma anche la più importante perché si mostrerà necessaria in ogni contesto, in Patria e in teatro operativo. Fiducia e senso della comunità, del gruppo: un sentire che è anche un valore collettivo che unisce gli alpini di oggi e quelli di ieri, manifestandosi nelle situazioni difficili, ai grandi raduni quali quello di Milano e, soprattutto, nella quotidianità della vita di caserma. E la fiducia, come gli istruttori, non bada al grado ma alla qualità e alle qualità della persona.  di Marco Petrelli

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