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Sulla parete con gli Alpini: addestrarsi alla roccia e alla fiducia reciproca

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Giulio Bucchi
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In un'Aquila bagnata dalla pioggia l'arrampicata su parete rocciosa inizia al chiuso, nel calore di una palestra non lontana dalla stazione. A primo acchito sembra tutto facile: dieci metri con appigli, materassi di gomma per attutire la caduta, l'istruttore che si raccomanda di fare leva sulle gambe e non sulle braccia. Insomma, l'arrampicata pare una passeggiata… in verticale, simile a quella allestita dall'Esercito a mo' di gioco nel corso di alcune manifestazioni. Ma al 9° Reggimento Alpini dell'Aquila di ludico c'è davvero poco e l'idea di andare sù come l'Uomo Ragno svanisce una volta afferrato il primo sperone: con un “adesso che faccio” stampato in testa, infatti, l'aspirante rocciatore altro non può che seguire i consigli dell'istruttore e provare a metterli in pratica. Ma quant'è dura. “Leva sulle gambe, leva sulle gambe! Braccia distese, piede non di pianta, no di pianta di punta! O si perde aderenza!”. Dopo vari tentativi tutti arrivano alla vetta, compreso il giornalista alla sua prima esperienza con una parete sintetica; le cose si fanno più dure poco dopo quando si testa la resistenza su pareti inclinate in avanti e sulle quali, oltre all'equilibrio, si deve far forza su tutto il corpo per evitare di cadere. Nel frattempo il cielo si schiarisce, la pioggia cessa di battere e la colonna di automezzi fa rotta verso Paganica, piccolo comune fra i più danneggiati del sisma 2009 dove i segni della forza devastante della natura sono ancora evidenti. Pochi chilometri e si arriva al suggestivo Santuario della Madonna d'Appari, accanto al quale si apre l'omonima galleria, vero e proprio buco nella pietra grigia sormontato da una vecchia lapide del Ventennio, con tanto di fascio in bella vista. Il Defender rallenta e si ferma all'imbocco: si continua a piedi immersi in luoghi incontaminati e in un silenzio rotto solo dal passaggio di qualche auto e da un grido familiare: “Leva sulle gambe!” Sulla parete aspra un maresciallo tenta di raggiungere la cima. L'istruttore, un sergente sulla trentina, è fra i migliori della specialità alpina e tratta tutti gli allievi allo stesso modo: severo ma comprensivo, rispettoso del grado ma, nello stesso tempo, uno che se sbagli non lesina a fartelo presente. Il secondo allievo a salire è una alpina. Agile, inizia la scalata con facilità per poi fermarsi poco sopra: non trova gli appigli, è indecisa sul come andare avanti, il polpaccio inizia a tremare e la punta del piede ricorda una manopola di telegrafo. È a poco da terra ed è in sicurezza (per la quale l'attenzione degli alpini istruttori è maniacale), se scivola male che va resta ciondoloni sulla parete, eppure l'auto conservazione prende il sopravvento e, in un attimo, quella piccola quota diventa il K2. Una sensazione avvertita e condivisa anche dal reporter che scala qualche metro più in là, alternando lo sguardo fra sotto e sopra. Qual è il trucco? Imparare a fidarsi: la testa dice di non andare avanti perché presa dalla paura, dall'agitazione o dal non sentirsi all'altezza; la voce in basso ricorda tre punti cardine dell'addestramento: lucidità, ripensare a ciò che hai appreso e fiducia verso i commilitoni. Ecco, la fiducia: quella è la vera vetta verso la quale ci si inerpica e la più difficile da raggiungere, ma anche la più importante perché si mostrerà necessaria in ogni contesto, in Patria e in teatro operativo. Fiducia e senso della comunità, del gruppo: un sentire che è anche un valore collettivo che unisce gli alpini di oggi e quelli di ieri, manifestandosi nelle situazioni difficili, ai grandi raduni quali quello di Milano e, soprattutto, nella quotidianità della vita di caserma. E la fiducia, come gli istruttori, non bada al grado ma alla qualità e alle qualità della persona.  di Marco Petrelli

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