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Alessandro Di Battista, perché la sua fuga dal M5s è un assist per Mario Draghi: lo scenario

Pietro Mancini
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Caro Direttore, non so tu, ma io credo che l'addio di Alessandro Di Battista e dei suoi seguaci al M5S "governativo" di Gigino Di Maio e Beppe Grillo non indebolirà, ma rafforzerà, all'interno del nuovo governo Draghi, la posizione di "forza tranquilla" del movimento. Il premier si avvarrà della collaborazione di una forza più di governo che di lotta, che spingerà l'acceleratore su dossier come l'ambientalismo e la riforma della sanità. 

 

E, a differenza di Conte, che ha subito l'inesperienza e gli errori (eufemismo) dei grillini, Il nuovo presidente del Consiglio imporrà alla coalizione la rotta da seguire e limiterà le sortite e le proposte, che reputerà incaute e dannose, per il Paese, dei rappresentanti M5S. Certo, tu- che, all'epoca, eri un giovane socialista lombardiano - ricordi che, alla vigilia dell'ingresso, nei primi anni 60, del Psi nella "stanza dei bottoni", il partito di Pietro Nenni subì la scissione del Psiup. I "carristi" - come vennero definiti i seguaci di Dario Valori, per l'ok all'invasione sovietica di Budapest - tolsero pochi voti ai socialisti. Ma accreditarono Nenni e i suoi ministri come politici non più massimalisti e parolai, ma riformatori. 

E, infatti, il primo governo di centrosinistra Moro-Nenni attuò le riforme più importanti del '900 : dalla legge "167" in urbanistica allo Statuto dei diritti dei lavoratori all'istituzione delle regioni. Il provvedimento più significativo, e contrastato - voluto, in primis, proprio da Riccardo Lombardi - riguardò la nazionalizzazione dell'industria elettrica, che aveva l'obiettivo di ricondurre sotto il controllo statale (venne creato l'Enel) il prezzo dell'energia e smantellare il conservatorismo delle imprese private del settore. Altra rilevante legge fu quella, che istituì la scuola media unificata e dispose l'elevamento dell'obbligo scolastico fino ai 14 anni. 

E, per frenare alcuni provvedimenti, ancora più innovatori, si manifestarono trame oscure, come il presunto golpe del generale Giovanni De Lorenzo (1964). Due giornalisti, Eugenio Scalfari e Lino Jannuzzi, de L'Espresso, vergarono un'inchiesta, che accentuò la loro notorietà, inducendo il Psi a farli eleggere in Parlamento. De Lorenzo entrò alla Camera come deputato del Msi. E il Psiup? Occupò l'estrema sinistra dell'arco parlamentare, andando a collocarsi, a volte, a sinistra dello stesso Pci. E, dopo un effimero successo nel 1963, 5 anni dopo, non riuscì a far eleggere alcun parlamentare. 

 

Poi, nel luglio del 1972, il Psiup si autosciolse, decidendo la confluenza nel Pci, tranne un'ala, guidata da Vittorio Foa, che costituì il Pdup, Partito Democratico di Unità Proletaria. Tale formazione, a sua volta, si fondò con il gruppo del Manifesto, guidato da Pintor, Rossanda, Magri ed altri esponenti, espulsi dal Pci di Luigi Longo, il successore di Togliatti, alla guida del "partitone rosso". E il M5S? Non sparirà dal teatrino di Roma. Ma è molto difficile che, quando verranno, finalmente, riaperte le gabine elettorali, si confermerà il vincitore indiscusso, con il 32% dei voti, come nel 2018... 

 

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