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Alessandro Giuli sul M5s: "Si è salvato solo di Maio. Ora si sciolgano per sopraggiunta inutilità"

Alessandro Giuli
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 I Cinque stelle si sono rotti il muso sul tragicomico voto di Rousseau per entrare nella maggioranza di Mario Draghi e per tutta risposta non hanno nemmeno ottenuto il ministero della Transizione ecologica, preteso da Beppe Grillo come prova d'amore ma affidato al tecnico Roberto Cingolani. Oltretutto hanno lasciato sul campo gli ineffabili Alfonso Bonafede e Lucia Azzolina, liberando il ministero della Giustizia e quello dell'Istruzione, per tenersi gli Esteri e i Rapporti con il Parlamento con Luigi Di Maio e Federico D'Incà, mentre Stefano Patuanelli è sbarcato dal Mise all'Agricoltura e Fabiana Dadone dalla Pubblica amministrazione alle Politiche giovanili. La miglior sintesi politica è quella letta in serata nella chat ristretta del M5S: «Ci hanno asfaltati Lega e Forza Italia contano più di noi». Ossa rotte, insomma. E non è una cattiva notizia, a patto però che adesso la smettano di rompere l'anima agli italiani. In nemmeno un lustro sono diventati come tutti gli altri partiti, ammesso e non concesso che siano mai stati differenti. Anzi, se possibile peggio: sono giunti a sostenere il terzo governo in circa tre anni di legislatura, la loro base parlamentare è diventata via via una grassa una riserva di caccia per campagne acquisti da tutte le latitudini politiche, nonché la vittima predestinata di pulsioni trasformiste che per un pelo non hanno consentito a Conte di cucirsi su misura l'esecutivo più increscioso della storia repubblicana. Ma è soprattutto la piccola classe dirigente grillina a dover ammettere la sua fragorosa bancarotta ideale e materiale effigiata dall'addio (ma poi chissà) del pasionario Alessandro Di Battista.

 

 

L'ULTIMA ILLUSIONE
Già dovrebbe far riflettere il solo fatto che Mario Draghi, raccogliendo le redini di uno Stato in emergenza lancinante, sia stato costretto ad allungare i tempi della formazione del governo nell'attesa che l'oracolo internettiano di Grillo sancisse il parere favorevole alla nuova impresa da parte degli iscritti. Per non dire del vincolo preventivo inflitto dal comico genovese all'ex banchiere centrale attraverso l'istituzione del ministero della Transizione ecologica: feticcio necessario ma non sufficiente per sfuggire all'impressione di un'ipocrisia che pone il governo nascente in un ambiguo chiaroscuro. E invece qui urge chiarezza: dopo aver furbescamente indossato la maschera settaria della purezza, i Cinque stelle hanno pietrificato l'Italia recitando tutte le parti disponibili in commedia, l'unica forma di coerenza alla quale sono rimasti aggrappati essendo quella dei veti mitragliati a raffica ma puntualmente smentiti dalla realtà. Dal 2018, hanno governato con la Lega di Matteo Salvini firmandogli tutti i decreti sicurezza in omaggio allo slogan "prima gli italiani" - se è per questo Di Maio toccò una vetta tutta personale declamando un "prima i romani" contro l'amica Virginia Raggi impegnata a difendere un campo nomadi romano dalle proteste neofasciste - salvo sabotare le grandi opere pubbliche e la riforma di una giustizia; dall'estate del 2019 hanno sgovernato con Matteo Renzi e il Partito democratico (cioè l'ex premier più inciso ai militanti grillini e il cosiddetto "partito di Bibbiano" demonizzato dal fondatore Gianroberto Casaleggio), cancellando i provvedimenti leghisti e votandosi alla causa dell'Europa tecnocratica. Poi, ed è storia recente, dopo aver cavalcato la pandemia a colpi di Dpcm, in nome della vanità di Conte e del terrore di tornare a casa senza un mestiere hanno maledetto Remzi cercato di sostituirlo raccattando qua e là frattaglie democristiane. Risultato: sono finiti gambe all'aria e ora si ritrovano al governo con il bullo di Rignano, Silvio Berlusconi (l'ex "psiconano") e quello stesso Salvini rinnegato con tanta sguaiatezza.

 

 

PROMESSE TRADITE
Nel mezzo di questo cammino zoppo e levantino, non hanno fatto altro che promettere che mai avrebbero governato con gli attuali soci (compreso Draghi), hanno imballato il mondo del lavoro scrivendo coi piedi provvedimenti controversi come il decreto dignità e il reddito di cittadinanza; hanno detto o fatto tutto e il contrario di tutto. Resta loro l'opzione dell'autoscioglimento per sopraggiunta inutilità naturale, e sarebbe un riscatto espiatorio perfino nobilitante, ma figurarsi se rinunciano a due anni di stipendio parlamentare e al gusto d'incombere come una sciagurata minaccia sulla vita pubblica dell'Italia. Complice la pazienza secolare del Quirinale, Draghi ha sin qui concesso anche troppo alla turba degli sbandati; loro prevedibilmente ringrazieranno complicandogli la vita e l'azione salvifica per la quale è stato chiamato come un dittatore di Roma antica destinato prima o poi a rimettere il mandato a se stesso dall'alto del supremo Colle.

 

 

Il destino che ci attende non è ancora scritto, ma s' indovina subito l'ombra d'infiniti capricci sui soldi in arrivo dall'Unione europea, la nostalgia dei bonus e delle altre paghette di Stato, il trastullo infantile dei tetragoni in marcia sui banchi a rotelle dell'Azzolina o asserragliati nelle primule rosa del commissario Domenico Arcuri. Volevano portarci fuori dall'euro, ammanettare la casta, processare la scienza e abolire la povertà. Ed eccoli lì, accucciati ai piedi di Draghi, a scaldare le poltrone di una Nazione piagata dal coronavirus e a concimare la miseria dei loro No che diventeranno altrettanti Sì a prezzo di giravolte estenuanti. Il muso rotto e una voglia matta, nel senso clinico del termine, di continuare a romperci l'anima.

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