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Mario Draghi, l'avvertimento: "Gli italiani possono stufarsi del governo d'emergenza"

Fausto Carioti
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Centoventi giorni di luna di miele sono tanti. Il sondaggio (datato 3 giugno) commissionato dai senatori del Pd all'istituto Quorum fotografa un 72% di italiani che esprimono fiducia nel premier e un 68% che sostiene di nutrirne «molta» o «abbastanza» nell'esecutivo. Numeri in linea con le rilevazioni degli altri istituti. Tanta roba. Eppure, nel momento in cui l'uscita dal tunnel pare vicina - l'economia che ricomincia a marciare, le regioni bianche che si moltiplicano, la ciliegina di Joe Biden che lo nomina "best friend" europeo - il presidente del consiglio scopre che i problemi veri, per lui e la sua squadra, iniziano adesso. Sembra una contraddizione, ma non lo è.

 

 

 

Se l'emergenza passa, il "governo d'emergenza" non può più dirsi tale, e il normalizzarsi della situazione cambia le regole del gioco. Gli elettori diventano meno indulgenti, errori che prima erano perdonati con facilità ora non lo sono più. Intanto i partiti di maggioranza alzano l'asticella delle pretese e quelli d'opposizione intensificano le proteste. Il caos del Cts edel ministero della Salute sul vaccino Astrazeneca, da ora in poi riservato agli ultrasessantenni, e la confusione parallela sul farmaco Johnson & Johnson, riportano indietro ai tempi brutti del governo Conte e forniscono nuovi buoni argomenti a Giorgia Meloni, che accusa l'esecutivo di «scatena re il panico tra i cittadini». È un conto che il presidente del consiglio, tramite Roberto Speranza e forse pure in prima persona, dovrà pagare. Però è dentro casa, tra i ministri e nella maggioranza, che stanno nascendo i problemi più grossi. Non per mano di Matteo Salvini, come avevano previsto e sperato gli osservatori di sinistra, ma a causa dei Cinque Stelle. Il primo colpo lo hanno sparato sul fronte della giustizia. Il 28 giugno è atteso nell'aula di Montecitorio il disegno di legge per riformare il processo penale, ma molto probabilmente non si vedrà. La causa principale è la contrarietà dei grillini, i quali considerano la cancellazione della prescrizione, introdotta nel 2019, una delle loro ultime bandiere. La commissione tecnica incaricata dal ministro Marta Cartabia di studiare la riforma ha scritto che la norma voluta da Alfonso Bonafede «espone l'imputato al rischio di un processo di durata irragionevole», e propone di cambiarla.

 

 

 

I Cinque Stelle si oppongono, a dimostrazione che i propositi garantisti declamati da Luigi Di Maio riguardano forse lui, di certo nessun altro esponente del M5S. Il risultato è la prima, vera grana interna alla maggioranza, che Draghi e Cartabia sono chiamati a risolvere. Ne seguiranno presto altre. Il movimento Cinque Stelle, tuttora prima forza del parlamento, ha risolto parte dei propri problemi organizzativi e Giuseppe Conte pare avviato a diventarne il capo politico effettivo. Il suo primo compito sarà rianimare una base demoralizzata e impedire la scissione dell'ala talebana capitanata da Alessandro Di Battista, o quantomeno renderla il meno dolorosa possibile. Può riuscirci in un solo modo: marcando le distanze da Draghi e dal resto della maggioranza su tutti i temi "identitari" del movimento, e non solo. È iniziato il tiro alla corda, e il governo rischia di strapparsi. 

 

 

 

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