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Vittorio Feltri, il racconto di un Natale mortale: "Ogni anno mi tocca questa tortura"

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E anche questo Natale - per fortuna - è passato senza troppi guai, sebbene per noi della carta stampata due giorni di completa inattività costituiscano un problema esistenziale. Saltare dalle giornate trascorse in redazione a 48 ore vissute in famiglia è traumatico. Non perché mogli e figli e parenti vari ti riempiono la casa sottraendola al tuo imperio, il problema è un altro: il tempo scorre lento, l'unica cosa che puoi compiere è leggere, ma dopo venti pagine sei cotto.

Non ti rimane che sonnecchiare. Quando ti risvegli, ti illudi che siano volate tre ore, invece no: soltanto 60 minuti lordi. L'orologio indica che sono le 16. Mancano quattro ore al banchetto serale, quello tradizionale con i congiunti che arrivano alla spicciolata e hanno il vizio insopportabile di portare con sé panettoni e bottiglie di spumante di cui non te ne importa nulla. Pazienza. Per ingannare l'attesa accendi il televisore nella speranza di evadere un po'. Pia illusione. I programmi durante le sacre feste in corso hanno l'età di Totò, li hai visti mille volte e li conosci a memoria. Vorresti che il piccolo schermo ti offrisse qualcosa di eccitante, invece ti propone un film western del 1948 in cui gli americani ammazzano a pistolettate centinaia di indiani, di cui sono tifoso. Non c'è verso non dico di divertirsi, però neppure di distrarsi.

Mi viene voglia di andare a fare quattro passi per Milano. Infilo il cappotto ed esco con il pretesto di acquistare le sigarette. E magari di bere un caffè. Col cavolo. I tabaccai sono chiusi e i bar altrettanto. Escursione inutile, improduttiva. Perfino il traffico automobilistico è quasi completamente sospeso. Incontro una vecchietta che tiene al guinzaglio un cagnolino e mi chino per accarezzarlo. Scambio quattro chiacchiere insensate con la canuta e mi avvio verso il mio dannato domicilio. Sono le 17.15 e sono sul punto di esplodere. Ogni anno mi tocca questa tortura e maledico l'enfasi con cui viene celebrato il Natale: gli addobbi, gli auguri seriali che affollano il cellulare, i pacchi dono che contengono spesso cose buone ma che ti allettano neppure un poco. Va bene, sostengono che sia nato Gesù, tuttavia è la solita storia da millenni, e nessuno mi spiega come si faccia a sapere la data dello storico evento considerato che all'epoca non c'era nemmeno il calendario gregoriano. Mistero. Ma chissenefrega.

 

L'importante è che giungano in fretta le 20, così prenderemo tutti posto a tavola senza appetito e fingeremo di apprezzare il cappone cucinato dalla mia consorte, la quale si è sfiancata - poveraccia - ai fornelli per celebrare questo noiosissimo giorno. Meglio il 2 novembre, i morti almeno hanno la virtù di tacere, e li ricordi, se li ricordi, in un silenzio, appunto, tombale. Proseguiamo, ed eccoci tutti a tavola, siamo una decina di commensali perla quasi totalità euforici, le conversazioni si incrociano, discussioni tediose, risate cacofoniche, brindisi sgangherati, tintinnio di bicchieri. La cena procede di pari passo con la mia rottura di scatole che tuttavia non manifesto per cortesia.

 

 

Tra una portata e l'altra scivolano minuti e minuti che diventano ore, e finalmente irrompe il panettone tra applausi e risatine. Io sono inappetente e ho quasi fatto fuori un pacchetto di sigarette consolatrici. Nel mio mutismo rammento tutti gli articoli di giornale in cui si specificava a chiare lettere che l'importante era salvare il Natale come se questo fosse decisivo per le sorti dell'umanità. Purtroppo l'abbiamo salvato e adesso, nonostante sia notte, sono ancora qui seduto a sbuffare. Invidio il mio gatto che dorme in salotto.

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