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Roberto Speranza, il mondo nuovo del ministro: pugni chiusi e Internazionale

Giovanni Sallusti
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Roberto Speranza, il ministro della Salute che aveva scorto nella pandemia «una nuova possibilità per ricostruire un'egemonia culturale» della sinistra (come da suo libro precipitosamente ritirato di fronte ai morti mietuti dal Covid), termina così il congresso di Articolo Uno, il partitino di cui è segretario per conto di D'Alema&Bersani. «Penso davvero che questa piccola comunità possa essere ancora protagonista del percorso di cambiamento dell'Italia». A seguire, la chiusura dell'evento con relativa colonna sonora, che chiarisce perentoriamente come il compagno Speranza e i convenuti interpretino il «cambiamento». Dapprima, «Bella Ciao» nella versione folk-rock dei Modena City Ramblers, band gruppettara e nostalgico-rifondarola se ce n'è una, quasi degli epigoni di Guccini senza il mondo che dava un senso al medesimo, le feste dell'Unità, il mito novecentesco dell'"impegno", il movimento operaio. Lì, all'Auditorium Antonianum della Capitale, di gente coi calli sulle mani se ne vede poca, c'è quel che rimane di un ceto politico e l'ala più radical che chic della gauche. Tutti a spellarsi le mani mentre risuona il motivo della festa più farlocca che c'è, il 25 aprile come frutto di una fantasmatica Resistenza di massa e non dello sfondamento dei carri armati angloamericani.

 

 

Ma il piatto forte deve ancora venire: deposto il fiore del partigiano, scatta nientemeno che L'Internazionale. Proprio così, il brano per eccellenza del socialismo (ir)reale, che fu l'inno ufficiale del Partito Comunista dell'Unione Sovietica, e che nella versione italiana esordisce con «Compagni avanti, il gran Partito noi siamo dei lavoratori» e contiene perle diciamo non all'insegna del riformismo come «Lottiam, lottiam, la terra sia di tutti eguale proprietà».

L'entusiasmo (della platea, chi guarda da fuori pensa di essere catapultato in un cinema d'essai degli anni Settanta) sale ulteriormente, i dirigenti schierati sul palco battono le mani fieri, ma molti delegati, soprattutto tra le prime file, non si trattengono, il richiamo della foresta è troppo forte: braccio sinistro teso e pugno chiuso. Il gesto che rimanda direttamente, senza edulcorazioni o modernismi ipocriti di sorta, alla più grande macchina sterminatrice del Novecento, il comunismo. Circa cento milioni di morti, con Mao e Stalin saldamente in testa alla classifica della mattanza rossa, a seguire gentiluomini come Pol Pot e la dinastia dei Kim.

 

 

È l'altra faccia della medaglia totalitaria, quella che porta incisa la falce&martello invece della svastica, di cui è la gemella siamese dell'orrore. Ma mentre la seconda è giustamente bandita dal vivere civile, la prima si può ancora evocare così, con letizia vintage, nel congresso di un partito al governo di un Paese occidentale, il nostro, nell'anno del Signore (ma non vorremmo turbare i nostalgici dell'ateismo di Stato sovietico) 2022. Provate a rovesciare lo sfondo ideologico della scena, a figurarvi una riunione di una formazione politica di destra che culmina in un'apoteosi di saluti romani. Oggi i giornaloni strillerebbero a prime pagine unificate contro l'allarme fascismo, fioccherebbero appelli in serie per la tenuta democratica a partire dal Colle più alto, si leverebbe la richiesta al leader di dissociarsi e cacciare a pedate tutti gli autori dell'atto.

Invece, state sereni, non succederà alcunché. Speranza e i giovani-vecchi come lui, residuati di una guerra fredda che non hanno vissuto, possono tranquillamente rivendicare pubblicamente l'iconografia, le ritualità, i gesti del comunismo più puro ed esplicito. E, beffa dentro l'evocazione della tragedia, intitolare questo caravanserraglio post (?) bolscevico "Un mondo nuovo". Che è, né più né meno, la riproposizione farsesca del vecchio.

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