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Aborto, un terzo punto di vista: e se la gravidanza non fosse davvero un dovere?

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Iuri Maria Prado
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Forse, rispetto a quelli normalmente adoperati e contrapposti, sull'aborto ci sarebbe un terzo punto di vista. Ed è il seguente. Fai pure che si sia tutti d'accordo che l'aborto è un delitto, che ricorrervi sia moralmente riprovevole, che la scelta di interrompere la gravidanza oltraggi un diritto autonomo e prioritario e che la donna, compiendo quella scelta, interferisca in una sfera individuale che non è sua anche se la porta dentro sé stessa. Tutto quel che si vuole.

 


E fai, poi, che si sia tutti d'accordo che occorra predisporre politiche di prevenzione, di dissuasione, di sostegno, di conforto materiale e sociale affinché quel delitto non abbia corso (magari qui ci si dividerebbe se qualcuno osservasse che tra le politiche di prevenzione ci sarebbe la cultura e la pratica profilattica, ma lasciamo perdere). Bene. E che cosa succede se la donna, pur in presenza di un ordinamento sociale che qualifica l'aborto come omicidio, e adotta ogni possibile politica rivolta a prevenirlo, e le assicura ogni solidarietà e aiuto affinché non si abbandoni a quel gesto criminale, che cosa succede quando essa intende, tutto ciò non ostante, interrompere la gravidanza?

 

 

La leghiamo su una sedia per nove mesi finché non si sgrava? Le diamo un flagello con cui contenere la propensione omicida? Andiamo in tribunale e chiediamo la nomina di un custode - il marito, il fratello, o magari quello che l'ha stuprata che sorveglia la crescita del pancione? Quando si capirà come si pretende di risolvere - concretamente, non a teorie sbandierate - questo problema, allora il discorso sarà meno ambiguo. Per la donna che ritiene di voler o dover abortire, qual è l'alternativa all'interruzione della gravidanza? La gravidanza forzata?

 

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