Ne "La città di Dio" Sant’Agostino se ne fa beffe, perla miriade di divinità messe a guardia del talamo: «Il dio padre Mettisotto, la dea madre Schiaccina e la dea Penetrina, insieme a Venere e a Priapo». Fa sorridere l’ironia di un santo che, a leggerlo, riserva non poche sorprese. Tuttavia per una volta ad Agostino bisogna dar torto: dei o non dei, gli antichi la vita sapevano godersela molto più di noi, come solo quelli cui preme dell’onore più che del peccato possono fare. Infatti, se alle matrone si proibiva di bere, non era tanto per il fatto in sé, ma per le spiacevoli conseguenze dell’alcol sull’autocontrollo, quindi per esorcizzare la possibilità che una signora alticcia potesse concedersi a un estraneo, col rischio di generare un figlio illegittimo. Questo sarebbe stato un disonore e una possibile tragedia.
Perciò le donne maritate, soprattutto se di alto rango, in teoria non le si poteva neanche sfiorare. In teoria, appunto, perché nella pratica una certa Clodia, per esempio, patrizia sorella del più noto tribuno, di amanti se ne era presi quanti ne voleva. A partire dal povero Catullo, che come universalmente noto nelle sue poesie la chiamava Lesbia. Per non dire di Messalina, nientemeno che l’imperatrice, moglie del conquistatore della Britannia, epperò magnifico cornuto. A dire il vero, forte è il sospetto che la povera Messalina sia stata calunniata e le sue bravate siano state esagerate, al punto di farla passare alla storia come una meretrice.Che poi, le meretrici saranno state quel che erano, ma avevano un loro status, addirittura divinità apposite e per giunta pagavano le tasse, sia a Roma che in Grecia.
Nell’Ellade, fu addirittura Solone a realizzare una “rete di postriboli pubblici”, spiega Anna Maria Urso nel suo I greci, i romani e.. il sesso (Carocci ed., p. 220, €17), per evitare che si insidiassero le donne oneste. Possiamo dunque capire perché sia detto il mestiere più antico del mondo. Tuttavia non solo di pagane (e pagani) di facili costumi si parla in questo libro, che è una miniera di aneddoti, battute, storie e storiacce, nonché una piacevolissima antologia di brani più o meno nobili – da Platone ad Aristofane, fino agli Inni a Priapo, che sarebbe quanto meno inopportuno trascrivere, perché farebbero arrossire anche un libertino. Ma a noi piace ridere, quindi vogliamo condividere qualche satira e qualche fatto notevole. Per quanto riguarda le prime, Marziale probabilmente è imbattibile.
Nell’epigramma dedicato a una certa Cloe, ironizza sulle spese che la malcapitata ha sostenuto per ingraziarsi il giovane amante, coperto di monete e di smeraldi: «Guai a te, poveretta, che ami i giovanetti dalla pelle liscia: ti lascerà nuda, il tuo Luperco!». D’altronde, se la ricerca del piacere non era questione da matrimonio, anche le donne lo cercavano altrove, sempre che non avessero un marito all’antica, come Catone il Censore, che avrebbe divorziato seduta stante da una moglie scostumata.
Abbiamo il sospetto che il Censore nel talamo seguisse alla lettera le ammonizioni del poeta Lucrezio, sebbene sia vissuto prima: costui, che la sapeva lunga su tutto, ci lascia di stucco quando scopriamo che, a suo dire, nel coito la moglie deve restare immobile come una statua, perché il piacere è roba da cortigiane. Una tristezza infinita, che mal si accorda con l’immagine di un mondo dannatamente gaudente, cui tuttora guardiamo con un pizzico di rimpianto.
Il mondo della koiné ellenistica in cui Apuleio scrive l’esilarante Asino d’oro, in cui il povero Lucio si trova trasformato in somaro perché come tale si è comportato. Qui le follie erotiche abbondano e sono una più buffa dell’altra, per un romanzo che in duemila anni non ha perso smalto. C’è anche il racconto delle astuzie di una popolana che nasconde la tresca con un bel giovane facendo credere al marito che questi si trova in casa per acquistare una vecchia giara. La bellezza e la giovinezza del resto erano una specie di ossessione per gli antichi, che amavano l’umanità al suo apogeo ma sapevano anche ridere delle angustie senili. E se su questo vogliamo sorvolare, perché noi la vecchiaia la neghiamo nella speranza di non doverla affrontare, possiamo rivolgere lo sguardo all’Eldorado dell’eterna giovinezza e immaginare le grazie di Frine, che ispirò l’Afrodite di Cnido a Prassitele: una bellezza senza infingimenti, la cui memoria ha attraversato gli abissi del tempo. In una commistione diabolica di alto e basso, possiamo sorridere delle scritte scollacciate dei ragazzacci di Pompei e meditare su una poesia poco etero di Anacreonte- «Ragazzo dallo sguardo di ragazza, io ti bramo», quindi apprezzare la gratitudine di Persio per una signora generosa e quella di Properzio per Licinna, che gli ha insegnato i giochi d’amore. Perché l’amore è il gioco degli adulti e questo gli antichi lo sapevano meglio di chiunque altro.




