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Pensioni, arrivano le ganasce sugli assegni: chi rischia il blocco

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Con l'inflazione che inizia a pesare sulle casse dello Stato, il timore è che il governo possa decidere di usare le pensioni come un bancomat. Ovviamente in modo surrettizio: modificando la rivalutazione degli assegni resa più generosa dal sistema a scaglioni che, da quest'anno, sostituisce quello per fasce. Certo, l'ipotesi che Palazzo Chigi possa del tutto cambiare le carte in tavola appare piuttosto remota. I tempi sono stretti e la campagna elettorale alle porte sconsigliano interventi precipitosi su un tema così delicato. Il tesoretto a cui attingere, però, fa gola.
Secondo l'Ufficio parlamentare di bilancio (Upb), tra il 2023 e il 2025 lo Stato dovrà sborsare 45,4 miliardi di euro per tutelare il potere d'acquisto dei pensionati. Questo nel caso di un inflazione superiore di due punti rispetto a quanto calcolato nel Documento di economia e finanza. Uno scenario che non sembra del tutto improbabile se si pensa che la crescita dei prezzi, prevista nel testo al 5,8%, veleggia ora al 7,3%.

 

 

 

BILANCIO - Siccome la rivalutazione automatica delle pensioni si basa sull'inflazione dell'anno prima, l'aumento degli assegni si verificherà a partire dal 2023. Dei 45 e rotti miliardi, però, 13,1 miliardi sono già conteggiati nei saldi di finanza pubblica per il nuovo sistema a scaglioni. La parte eccedente, invece, no. Perciò, con un'inflazione oltre il 7%, il maggior costo per le casse dello Stato sarebbe pari a 32,3 miliardi. Ed è proprio a questo proposito che la novità del 2022 può giocare a favore del governo.
Dal primo gennaio, in virtù della legge di bilancio del 2019, si applica il meccanismo di indicizzazione delle pensioni per scaglioni, sul paradigma dell'Irpef, molto più generoso di quello in vigore dal 2013.
Introdotto dal governo Prodi nel 1996, il sistema tornerebbe in auge nelle vesti stabilite dalla legge 388 del 2000. Nello specifico, si prevede un adeguamento in misura piena, cioè al 100% dell'inflazione, per gli assegni fino a quattro volte il trattamento minimo (515,58 euro), al 90% per quelli compresi tra 4 e 5 volte il minimo e al 75% se superiori. Il modello in vigore fino all'anno scorso, invece, era quello per fasce.
Sulla base di questo meccanismo, introdotto dal governo Letta nel 2013, a ciascuna banda corrisponde un'aliquota di rivalutazione - all'epoca pari al 100%, 95%, 75%, 50%, 45% che va applicata su tutta la pensione.

 

 

 

 

IL LATO NEGATIVO - Il sistema a scaglioni, insomma, è più vantaggioso per i pensionati e anche più oneroso per lo Stato. «Quest' anno c'è questa regola e non c'è più tempo per cambiarla, per cui l'anno prossimo se l'inflazione sarà al 6,6%, i pensionati, almeno quelli fino a cinque volte il minimo, saranno l'unica categoria che recupererà in pieno l'inflazione» spiega Alberto Brambilla, presidente del Centro studi e ricerche Itinerari previdenziali. «C'è un patto sociale che va rispettato». Anche perché, negli ultimi anni, le modifiche alle regole sull'indicizzazione sono state numerose. E tutte hanno tagliato gli assegni. Il primo a intervenire è Monti che, con il decreto Salva Italia del 2011, blocca per due anni la rivalutazione delle pensioni superiori a tre volte il minimo, pari a circa 1500 euro lordi. Poi, nel 2018, il governo Lega-M5S porta le fasce da cinque a sette, riducendo l'importo. Il sistema dura poco più di un anno perché, con il cambio della maggioranza, cambiano anche le fasce che, nel 2020, diventano sei. Nel 2022 si è tornati, infine, al sistema a scaglioni varato da Prodi. «Quello che serve è una legge duratura e stabile» sottolinea l'avvocato Celeste Collovati, esperta di previdenza. «Se c'è un problema di debito pubblico, il rischio è che si vadano a colpire le pensioni. Lo stato dovrebbe essere più attento ad adeguare gli assegni, creando un sistema più semplice che non sia in contrasto con la Costituzione»

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