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Arrigo Sadun, ex direttore Fmi: "Cina grande malata, cosa rischia l'Italia"

Pietro Senaldi
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«I tempi di trasmissione delle strette monetarie sull’economia reale sono relativamente lunghi; negli Usa sono di almeno 14-18 mesi. Quindi non deve sorprendere che le politiche monetarie restrittive della Federal Bank e della Banca Centrale Europea intraprese circa un anno fa ancora non abbiano avuto effetti decisivi».

Ma dai segnali che si vedono in questa lunga prima fase, l’azione di rialzo del costo del denaro si rivelerà efficace o, come sembra, non troppo?  
«Il nocciolo duro dell’inflazione ancora non è stato intaccato, perciò le banche centrali sono costrette a perseguire politiche restrittive. Negli Usa, in particolare, la situazione è alquanto difficile perché si è ormai avviata una spirale salari/prezzi molto dinamica (entrambi crescono a tassi in eccesso del 5%. Inoltre le politiche restrittive della Fed sono state oggettivamente ostacolate dalle politiche fiscali dell’amministrazione Biden, che rimangono altamente espansive».
Fino a quando durerà la stretta monetaria della Fed senza rischiare di determinare una recessione? 
«Durerà finché non ci saranno chiari segnali che l’inflazione è stata debellata, ossia fino a quando questa non scenderà al 2%. Ovviamente la Fed preferirebbe ottenere un atterraggio morbido, un rallentamento dell’economia che attenui le pressioni inflazionistiche senza innescare una recessione, ma nella realtà è disposta a rischiare una recessione pur di riportare l’inflazione sotto controllo».

Direttore del Dipartimento Analisi Economiche e Finanziarie del Ministero dell’Economia e delle Finanze dal 2003 al 2005 e direttore esecutivo del Fondo Monetario dal 2005 al 2012, nonché consulente economico di vari ministri delle finanze italiani, Arrigo Sadun è dal 2012 presidente di TLSG-International Advisors, società di consulenza basata a Washington e specializzata nell’analisi dei rischi macro-economici e geo-politici.

Ora che si è chiusa al solito modo, ossia con una sorta di sanatoria e un arrivederci alla prossima, la manfrina del debito pubblico e del rischio di fallimento degli Usa, c’è la possibilità che Washington adotti politiche economiche più prudenti ? 
«La tendenza a sostanziosi aumenti delle spese di bilancio durerà finché i Democratici avranno il controllo della Casa Bianca e del Congresso. L’obiettivo dichiarato dell’ala più radicale dei Democratici, che è quella che condiziona le strategie economiche dell’amministrazione Biden, è trasformare gli Usa in una social-democrazia di stampo europeo, con una notevole espansione dello stato sociale e un forte inasprimento della pressione fiscale».
Ciononostante pensa che falliranno altre banche negli Usa? 
«Probabilmente sì, perché la crisi del settore bancario Usa è stata arginata ma non risolta. Al di là dei clamorosi esempi di cattiva gestione, le banche americane sono rimaste spiazzate dal rapido aumento dei tassi d’interesse e dalle stretta monetaria della Fed. Le banche considerate sistemiche hanno ormai ottenuto una garanzia implicita da parte delle autorità, mentre gli istituti locali (sono circa 4.500 le banche regionali negli Usa) non hanno questo tipo di protezione. Il problema naturalmente è che un insieme di banche non sistemiche costituisce un pericolo sistemico per la stabilità del settore».
Ma perché l’Europa, dove l’inflazione deriva largamente dall’aumento del costo delle materie prime e non da un eccesso di domanda, continua ad alzare il costo del denaro? 
«A differenza della Fed, che ha il duplice obiettivo istituzionale di mantenere la stabilità dei prezzi e il pieno impiego, il compito della Bce è essenzialmente quello di tenere l’inflazione sotto controllo. La Bce, almeno nominalmente, è un organismo indipendente mentre la Fed è controllata dal Congresso, a cui deve rispondere periodicamente. A questi fattori istituzionali se ne possono aggiungere altri di natura politica. Per esempio, è ben nota l’avversione dei tedeschi e di altri Paesi nordici per l’inflazione e per una gestione più permissiva delle politiche fiscali».
Quindi la politica monetaria della Bce è preludio a un ritorno all’austerità contabile nella Ue; e sarebbe dannoso o opportuno? 
«In effetti, sembra proprio che la ricreazione sia finita. L’emergenza Covid prima e la guerra in Ucraina successivamente hanno indotto le autorità europee a sospendere o rilassare notevolmente le politiche di austerità del Patto di Stabilità; ma adesso che l’emergenza è finita, è fatale che si cerchi di ritornare a politiche fiscali più rigorose, pur evitando l’eccessiva rigidità del Patto originario. L’Italia non deve farsi trovare impreparata a questa nuova situazione».
E come fa, se la Germania è già in recessione? Ci andremo anche noi? 
«È molto probabile, anche perché non è solo l’economia tedesca che è in difficolta, bensì anche quelle dei nostri principali partner economici. Indubbiamente andiamo incontro a una congiuntura economica molto difficile, ulteriormente aggravata dalle numerose incertezze e dai rischi derivanti dagli sviluppi geo-politici».
I tecnici del governo sostengono che il buon andamento dell’economia italiana sia più congiunturale che sostanziale: che futuro attende il nostro Paese? 
«Condivido l’opinione che il discreto andamento dell’economia italiana sia in gran parte il frutto di fattori contingenti piuttosto che l’inizio di una fondamentale inversione di tendenza rispetto al lungo periodo di semi-stagnazione che ha caratterizzato la nostra economia negli ultimi decenni. In parte, i discreti risultati riflettono un’illusione statistica: avendo sofferto più di altri Paesi durante il Covid e avendo sperimentato una ripresa più tardiva, è naturale che ora le statistiche appaiono a nostro favore. Indubbiamente le eccezionali misure di sostegno alla famiglie e alle imprese hanno rilanciato i consumi e gli investimenti, resta però da vedere quanti di questi stimoli perdureranno nel tempo e quanti invece si esauriranno in un effetto temporaneo».
Che ricetta suggerisce per rilanciare l’economia italiana? 
«Sarebbe assolutamente necessario risolvere i numerosi e ben conosciuti nodi strutturali che ostacolano la crescita da decenni. Alcuni progressi sono stati ottenuti, ma tutti i più autorevoli commentatori sottolineano che l’Italia deve risolvere simultaneamente numerose carenze strutturali (inefficienza della PA, ritardi nello sviluppo di infrastrutture essenziali fisiche e tecnologiche, disfunzioni nei settori dell’istruzione, nell’inserimento nel mondo del lavoro, nell’amministrazione della giustizia). Ognuna di queste riforme strutturali richiede sforzi prolungati per lunghi periodi, ben oltre l’orizzonte temporale dei governi che si sono succeduti finora. La prospettiva di una sostanziale stabilità politica è una condizione per avviare le riforme, ma è soltanto una delle tante. Il compito non sarà né facile né di breve durata».
Il governo italiano è molto attento sui conti e frena sulla politica espansiva, salvo che per le infrastrutture: non si rischia di mettere in difficoltà le imprese? 
«Effettivamente il nuovo governo di Centrodestra si è mostrato molto prudente sulla tenuta dei conti pubblici. In realtà si tratta di una scelta obbligata. La situazione dei conti pubblici rimane precaria nonostante la protezione ottenuta dalla Bce e una situazione dei mercati eccezionalmente favorevole. Tutto ciò sta per finire».
Ma il grande malato dell’economia mondiale sono gli Usa, l’Europa o la Cina? 
«Nessuna di queste grandi aree economiche gode attualmente di buona salute. Ma i problemi dell’economia statunitense e di quelle europee sono largamente di natura congiunturale mentre quelli della Cina sono strutturali. Pechino ha perso gran parte dei vantaggi competitivi originarie deve riorientare la propria economia verso modelli di crescita più sostenibile nel lungo periodo. La strategia di crescita della Cina si è basata finora sulle esportazioni e sugli investimenti pubblici e privati, con un deciso contributo di quelli esteri. Queste tendenze trovano crescenti limiti nell’elevato livello di indebitamento, nelle restrizioni imposte al commercio estero e nella de-localizzazione di molte imprese straniere».
Come si stanno preparando gli Usa alla guerra oggi economica, e forse domani diplomatica e qualcosa di più, con Pechino? 
«Gli Stati Uniti hanno raccolto la sfida della Cina per la supremazia globale e hanno già adottato diverse misure per contenerne l’ascesa e riequilibrare a loro favore i rapporti commerciali. L’atteggiamento di benigna tolleranza nei confronti del gigante cinese si basava sull’ipotesi che il successo economico avrebbe gradualmente stemperato le caratteristiche autoritarie del regime comunista, rendendolo sempre più compatibile con i valori delle democrazie liberali. Ovviamente questo processo si è arrestato con l’ascesa di Xi Jinping e le sue ambizioni sempre più esplicite di dominazione globale».
Quindi l’economia di Pechino rischia il collasso e la svolta autoritaria potrebbe accelerarlo?
«Parlare di un collasso imminente dell’economia cinese mi sembra eccessivo. Certo il Paese si trova a dover affrontare una difficile situazione economica. Alcuni settori trainanti, tra cui quello delle costruzioni, sono in crisi profonda. I risparmi della classe media che servono a garantire un minimo di sicurezza sociale sono stati falcidiati dal collasso del mercato immobiliare e dalle turbolenze dei mercati finanziari. La situazione rischia di alimentare un diffuso disagio sociale, soprattutto tra i giovani urbanizzati, il cui tasso di disoccupazione è intorno al 20%. Di fronte a queste difficoltà la tentazione del regime comunista è quella di rafforzare il proprio controllo sull’opinione pubblica alimentando sentimenti nazionalisti e lo spettro di una minaccia esterna».

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