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Spread? Con Mario Draghi era peggio (ma la stampa di sinistra lo scorda)

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 Mario Draghi

Sandro Iacometti
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Per l’ex ministro Giovanni Tria Giancarlo Giorgetti è stato fin troppo prudente: «Ha tenuto il deficit più basso che poteva». Anche perché, ha spiegato in un’intervista alla Stampa, doveva fare i conti con gli effetti del Superbonus, «un provvedimento eversivo e criminale portato avanti dal governo Conte2». Pur senza usare parole così lievi e misurate come quelle dell’economista, la versione del ministro è simile. Dopo aver premesso che gli effetti delle agevolazioni edilizie («80 miliardi di debiti fiscali che dovranno essere onorati nei prossimi 4 anni»), Giorgetti ha spiegato in una nota pubblicata sul sito del Mef all’indomani dell’approvazione della Nadef, che «il governo si è mosso secondo una politica di bilancio seria, responsabile e prudente, consapevole che fare debito non è mai una buona cosa».

Quel debito che non scende (nel 2024 resterà inchiodato al 140,1%) e quel deficit che sale (dal 3,6 tendenziale al 4,3%), però, non sono passati inosservati. A metà seduta lo spread, che già da qualche giorno dava segni di fibrillazione, è schizzato sopra i 200 punti. Apriti cielo. «I mercati non si fidano», «siamo peggio della Grecia», E poi, se proprio vogliamo attaccarci a quel numerino che tanto piace ai nostalgici della spallata a Silvio Berlusconi nel 2011, va detto che con il bazooka umano Mario Draghi la scorsa estate sono stati toccati picchi di 250 punti. Quindi, tanto vale iniziare a togliere lo spread dall’arsenale anti-governista.

 

 

Detto questo, un problema sui titoli di Stato esiste. Ma non riguarda il deficit previsto da Giorgetti nella Nadef, né l’Italia. Per rendersene conto bisogna spostare lo sguardo dallo spread ai rendimenti dei bond decennali. In questo modo ci si piò rendere conto che sì, le tensioni ci sono, e non sono neanche trascurabili. Quello dei Btp è salito al 4,92%, un livello che non si vedeva dalla fine del 2012. E qui già c’è chi farà i salti di gioia, come le redazioni di Stampa e Repubblica che, taroccando un po’ i dati, avevano dato la notizia con qualche giorno di anticipo. La realtà è che l’obbligazione italiana ha retto fin troppo a lungo, perché tutti i titoli, compresi quelli considerati più sicuri, sono già schizzati su livelli record da giorni. Ieri non ha fatto eccezione. I decennali francesi sono balzati al 3,5%, livello più alto dal 2011, quelli spagnoli sono finiti sopra il 4% e quelli tedeschi, i famosi Bund su cui viene calcolato il nostro spread, hanno sfiorato il 3%, entrambi ai massimi da 10 anni. Stesso discorso dall’altro lato dell’oceano, dove i Treasury americani sono da giorni a valori (oltre il 4,6%) che non si vedevano dal 2007.

Biden, Macron e Scholz come Meloni? Tutti sotto il fuoco della speculazione? Tutti sfiduciati dai mercati? La sfiducia, in effetti, c’è. Ma non nei confronti dei governi, bensì delle banche centrali. Come spiegano gli analisti di BlackRock Investment Institute, che sono gli esperti che suggeriscono gli acquisti di uno dei più grandi fondi di investimento al mondo, con masse gestite di circa 8mila miliardi di dollari, «i mercati si stanno rendendo conto che le banche centrali si stanno preparando a lasciare più in alto e più a lungo i tassi». Il che, tanto per avere un’idea, sta provocando effetti diretti non solo sui costi del debito pubblico, come ha sottolineato Giorgetti, e non solo sulle famiglie che hanno sottoscritto mutui a tasso variabile o devono aprirne di nuovi. La mazzata principale riguarda il costo della liquidità per le imprese, che inevitabilmente frena l’economia.

 

 

I NUMERI - L’Istat nel terzo trimestre ha rilevato una quota significativa di aziende per cui le condizioni di accesso al credito sono meno favorevoli: nel dettaglio il 39,7% nel settore del commercio al dettaglio, il 35,7% in quello manifatturiero, il 27,7% in quello dei servizi di mercato e, infine, il 24,7% in quello delle costruzioni. Un dato che si affianca a quel -4% registrato da Bankitalia alla voce prestiti alle imprese a luglio e ai numeri snocciolati ieri da Abi e Cerved, che registrano un sensibile incremento dei debiti non onorati. Secondo il rapporto sugli Npl, le cosiddette sofferenze, nel 2023, il tasso di deterioramento del credito è salito al 3,1% dal 2,2% del 2022, «superando per la prima volta i valori pre-Covid che si attestavano nel 2019 a 2,9%». Nel 2024 si prevede un ulteriore aumento che porterà l'indice a raggiungere un picco del 3,8%, il valore più alto dal 2016. Ecco, questi sono i numeri che spaventano. Non lo spread, buono solo per la propaganda a basso costo. La situazione, probabilmente, peggiorerà. Ed è per questo che il governo utilizzerà tutte le risorse a disposizione, come ha detto Giorgetti, «per interventi indispensabili e necessari per assicurare la coesione sociale». Si può discutere, ovviamente, sul merito e sull’efficacia di tali interventi (anche se la conferma del taglio del cuneo era invocata un po’ da tutti). Quello che non si può o non si dovrebbe fare e tifare per la speculazione finanziaria contro l’Italia, sperando che riesca lì dove le sinistre non sono riuscite.

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