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E' caccia a chi condonò nel 2002

L'obiettivo: raccogliere 60 miliardi. Un milione di adesioni alla sanatoria. Oggi i furbi ritornano nel mirino di Tremonti

Andrea Tempestini
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A sorpresa la caccia ai furbetti del condono diventa caccia grossa allargandosi anche ai contribuenti più sfortunati di tutti, quelli che pagarono il condono Iva del 2002 e poi non sono stati condonati perché la norma è stata bocciata. Il ministro dell'Economia, Giulio Tremonti, ha inserito nel maxi-emendamento alla manovra anche una proroga di un anno per gli accertamenti su chi fece il condono Iva all'epoca: «Per i soggetti», recita il testo, «che hanno aderito al condono di cui alla legge 27 dicembre 2002, n. 289, i termini per l'accertamento ai fini dell'imposta sul valore aggiunto pendenti al 31 dicembre 2011 sono prorogati di un anno». Questo significa che l'Agenzia delle Entrate potrà dare la caccia ancora un anno ai 939.041 contribuenti che aderirono fra il 2003 e il 2004 al condono Iva versando inutilmente 2 miliardi e 974 milioni di euro. Quasi la metà di quel condono (1,6 miliardi) venne versato dalle 249.019 società di capitale: il 37,7% di quelle esistenti. Il resto fu sostanzialmente versato da 457.167 ditte individuali e da 211.397 società di persone. Di fatto quei 2,9 miliardi di euro di una tantum pagata fece emergere irregolarità o mancati versamenti su un montante complessivo di 60 miliardi di euro. Il condono però fu poi cassato dalla Corte di Giustizia dell'Unione europea, che invitò il governo italiano a recuperare le somme evase restituendo le rate di condono già incassate, perché illegittime. In realtà la situazione è restata congelata così perché i termini per l'accertamento fiscale erano ormai scaduti, e tutto era andato in prescrizione.  Nel luglio scorso però la Corte Costituzionale riconoscendo la legittimità di una vecchia norma varata da Pier Luigi Bersani e Vincenzo Visco, ha disposto che in caso di violazione della normativa penale i termini per l'accertamento potevano essere raddoppiati. Siccome quasi tutti quelli che aderirono al condono Iva del 2002 chiusero pendenze che avevano un profilo penale (come ogni evasione o elusione dei pagamenti Iva), fino al 31 dicembre 2011 l'Agenzia delle Entrate avrebbe potuto denunciare uno per uno chi aderì a quel condono, recuperando coattivamente l'intero montante delle irregolarità. Operazione abbastanza semplice, perché quelle società aderendo al condono avevano dichiarato implicitamente le loro irregolarità. La somma teorica da recuperare -  60 miliardi più sanzioni e interessi decennali -  naturalmente ingolosisce il fisco. Non procedere avrebbe fatto rischiare al direttore della Agenzia delle Entrate, Attilio Befera, una procedura della Corte dei Conti per danno erariale.  Ma il tema è spinoso, e se ne rendono conto tutti. Perché quei contribuenti aderirono a un patto con lo Stato, certo con loro vantaggio. Ma non è colpa loro se quel patto non ha retto alla prova internazionale di legittimità. Solo che con un atto concordato si sono auto-dichiarati tutti evasori e ora offrono il capo alla ghigliottina. L'allungamento di un anno dell'accertamento serve un po' a recuperare in tempi realistici il possibile di quei 60 miliardi, ma anche ad offrire la sponda al Parlamento per una soluzione più politica del caso. Perché l'amministrazione stessa sa che dopo dieci anni molte di quelle imprese non ci sono più, e quindi non sarebbero in grado di pagare nulla. Molte di quelle che ci sono probabilmente dovrebbero portare i libri in tribunale di fronte alle somme richieste, comprensive di interessi e sanzioni. E anche i grandi gruppi coinvolti (quasi tutti, compreso quello del premier) pur essendo in grado finanziariamente di pagare quanto verrà richiesto, vedrebbero compromessi tutti i loro piani industriali e finanziari. È una torta dunque appetitosa che però alla fine rischia di non sfamare proprio nessuno. E di costringere a varare la più straordinaria follia fiscale italiana: il condono sui condonati. di Franco Bechis

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