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Re Giorgio faccia la graziasalvi Silvio e il Paese

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Come previsto, la sentenza della Cassazione ha sprofondato l'Italia nel caos politico ed economico. Fino a oggi Napolitano ha tergiversato, ma adesso il tempo è scaduto

Lucia Esposito
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Un mese fa avevamo previsto che sarebbe finita male e non ci eravamo sbagliati. Prima che i giudici della Cassazione si pronunciassero e condannassero Berlusconi a quattro anni di carcere avevamo infatti suggerito la soluzione della clemenza: un atto di Giorgio Napolitano che evitasse il precipitare degli eventi, l'arresto del Cavaliere e il paese nel caos. L'ipotesi della grazia aveva fatto arrabbiare tutti. Gli avvocati dell'ex presidente del consiglio in primis, i quali si erano chiesti perché dare per persa una partita ancora prima di giocarla, quasi che la si affrontasse in condizioni di subalternità. Ma anche il capo dello Stato non l'aveva presa bene: pur avendo riflettuto sulla possibilità di un suo intervento, il presidente della Repubblica giudicava controproducente la fuga di notizie. Parlando di clemenza troppo presto si rischia di bruciarla, fu il suo ragionamento e per questo reagì con un comunicato arrabbiato: talmente arrabbiato che i più esperti invece di una smentita la lessero come una conferma.  La verità è che il nostro scoop non fu una dimostrazione di «analfabetismo politico» (attenzione: politico, non istituzionale), come scrissero lassù sul Supremo Colle, cioè di inesperienza di come vanno le cose in politica - tradotto significa che quanto si vuole fare non si dice - ma l'esatto contrario. Per noi era certo che la situazione si sarebbe messa al peggio, che la Cassazione avrebbe condannato Berlusconi e che ci saremmo trovati nella incredibile condizione di veder arrestare il leader politico più popolare del paese, il fondatore del primo partito italiano, cioè colui che ancora oggi dopo tutto ciò che è successo rappresenta un terzo degli italiani. Noi infatti non avevamo dal principio nutrito dubbi sul fatto che saremmo arrivati dove siamo e cioè alla condanna di Berlusconi e alla minaccia di una scontro senza quartiere.  E non perché ritenessimo il Cavaliere colpevole, ma perché eravamo e siamo convinti che la sentenza fosse già scritta e dunque non vi fossero dubbi su quanto sarebbe accaduto. A differenza di altri noi non riteniamo che i giudici siano un partito e nemmeno che siano tutte toghe rosse, ma sono solo uomini e come tali subiscono le pressioni e nutrono ambizioni, stanno in mezzo al mondo e, soprattutto, in mezzo ai colleghi. Assolvere Berlusconi avrebbe voluto dire condannare la Procura di Milano, cioè confermare che negli ultimi vent'anni il leader del Pdl è stato vittima di una persecuzione giudiziaria, e questo nessun giudice - neanche se non si fosse chiamato Esposito - avrebbe avuto il coraggio di farlo. Per capirlo basti riflettere sulle reazioni seguite alla assoluzione del generale Mori: poco ci è mancato che a finire sul banco degli imputati fosse il presidente del collegio giudicante. E a processo c'era Mori, non Berlusconi. La condanna era inevitabile e inevitabile era anche la situazione che ne sarebbe seguita, che è quella che abbiamo sotto gli occhi. Un Paese nel caos, che non sa prendere una strada in politica economica, uno scontro al calor bianco tra le forze politiche, le elezioni dietro l'angolo. Abbiamo bisogno di tutto questo? A parer nostro no. Abbiamo bisogno di pacificazione e ciò è possibile solo se l'arbitro interviene e rimette in ordine le cose. Per tale ragione avevamo tirato per la giacchetta Napolitano, per questo motivo ne avevamo sollecitato l'intervento. Il capo dello Stato poteva evitare tutto questo. Nel passato avrebbe potuto esercitare la sua moral suasion in sulla Corte costituzionale, come altri presidenti avevano fatto, facendo confermare lo scudo per le alte cariche. Volendo avrebbe potuto avallare la posizione sul legittimo impedimento oppure esercitare un indirizzo sui rapporti tra politica e magistratura.  Poteva ma non l'ha fatto. O meglio: lo ha fatto ma solo quando le cose lo hanno colpito. Se ci troviamo in questa situazione un po' di colpa dunque è anche sua. Lui poteva fermare il precipitare degli eventi. Lui poteva, come un suo predecessore, dire «Non ci sto» e non per motivazione personale. Purtroppo tutto ciò non è avvenuto e ora il presidente della Repubblica ha una sola possibilità: quella che indicammo un mese fa. Dimostri di aver coraggio, di non temere i condizionamenti giudiziari. Di non avere paura del circolo mediatico-giustizialista e del partito delle manette, sempre pronto a odiare gli avversari. Dia la grazia e ripristini l'equilibrio politico che manca all'Italia. Solo così infatti si eviterà il peggio. Il Paese tutto, alla fine gliene sarà grato,  Maurizio Belpietro  

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