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Il caso Scaglia e l'economia uccisa dai pm

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In 10 anni lo Stato ha speso quasi 500 milioni per rimborsare chi, come l'ex capo di Fastweb, è finito in cella ingiustamente. Ma l'abuso del carcere preventivo fa scappare gli investitori esteri e ci impoverisce. L'alibi del Cav non regge davvero più: Letta riformi la giustizia

Lucia Esposito
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Quanto costa un anno di carcere? Non quanto costa allo Stato in termini di mantenimento del detenuto dietro alle sbarre, per pagare luce, acqua, gas, vitto, cure, servizi e stipendi agli agenti di custodia. No: quanto costa una persona che è stata ingiustamente privata della propria libertà e rinchiusa in una cella su ordine della magistratura? E non alludo solo al risarcimento danni che lo Stato deve versare a chi sia stato colpito da un ordine di custodia cautelare e poi riconosciuto innocente. Qualcuno ha fatto il conto di quanto lo Stato ha speso negli ultimi dieci-undici anni e ne è venuta fuori una cifra enorme, prossima al mezzo miliardo di euro. Già questa è una bella botta per le casse pubbliche eppure io ritengo che sia il minore dei costi e che per capire davvero quanto pesi sulle finanze italiane un anno di carcere ingiusto come quello patito da Silvio Scaglia si debba andare più a fondo.  La riflessione è imposta dopo l'assoluzione dell'ingegnere piemontese che fondò Fastweb e dopo averla venduta agli svizzeri di Swisscom è considerato uno degli uomini più ricchi d'Italia.  Come è noto, l'imprenditore fu arrestato nella notte fra il 25 e il 26 febbraio del 2010 per il reato di associazione a delinquere finalizzata all'evasione fiscale. In pratica i pm lo accusarono di aver messo insieme un complesso giro di fatturazione con l'obiettivo di sottrarre al fisco centinaia di milioni. In carcere finirono, oltre a Scaglia, anche altri manager di compagnie telefoniche, tra questi un alto dirigente della Telecom. Quando gli agenti della Guardia di finanza fecero scattare le manette ai suoi polsi, l'ingegnere piemontese non era un uomo in fuga e nemmeno una persona che potesse reiterare il reato o inquinare le prove, tre elementi che rendono obbligatorio l'arresto. No, Scaglia aveva da tempo lasciato Fastweb e anche il settore telefonico.  Da anni viveva a Londra e si occupava di tutt'altro, dunque non poteva continuare a truffare - ammesso e non concesso che lo avesse fatto - il Fisco né poteva nascondere carte o altro dato che nella sua ex azienda non metteva più piede. Né vi era pericolo di fuga, perché quando venne emessa l'ordinanza di custodia cautelare nei suoi confronti l'imprenditore era all'estero, ma invece di darsi alla latitanza dopo due giorni si consegnò alle forze dell'ordine. Ciò nonostante Scaglia venne prima portato a Regina Coeli e poi a Rebibbia e sbattuto in cella come il peggior delinquente. Dietro le sbarre rimase 80 giorni, cioè il periodo massimo della custodia cautelare, poi finiì ai domiciliari nella sua casa di Ayas, Val d'Aosta. Nella baita era costretto a star da solo, senza poter parlare con nessuno, senza neppure potersi affacciare alla finestra. Regime di carcere domiciliare duro. Solo un anno dopo l'arresto, a due mesi dall'inizio del processo, il fondatore di Fastweb tornò libero. Finalmente gli fu consentito di tornare a fare l'imprenditore, a occuparsi del suo gruppo e della web tv fondata a Londra. Il dibattimento nel frattempo è andato avanti e finalmente l'altro ieri è arrivata la sentenza: assolto con formula piena. Scaglia non ha nulla a che fare con il maxi riciclaggio di denaro per le false fatturazioni telefoniche. Lui vendeva traffico telefonico, se qualcuno comprava e poi non pagava l'Iva sono fatti suoi, ma lui di quelle tasse evase non si è mai messo in tasca nemmeno un euro. Certo, questa è la sentenza di primo grado e bisognerà vedere se ci sarà l'Appello.  Dopo di che Scaglia, se vorrà, potrà rivalersi sullo Stato, chiedendo di essere risarcito per l'ingiusta detenzione. Non oso immaginare quanto costa un uomo da un miliardo di dollari tenuto in carcere e ai domiciliari per un anno e impossibilitato a occuparsi dei suoi affari. Non so calcolare in termini economici che cosa voglia dire per un uomo d'affari non potersi recare negli Stati Uniti per tre anni e mezzo a causa dell'accusa di associazione a delinquere finalizzata all'evasione fiscale che pende sul suo capo. Gli Usa sono il mercato numero uno per le nuove tecnologie, eppure Scaglia per 1.275 giorni non ha potuto mettervi piede: forse ora - dopo l'assoluzione - qualcosa cambierà. Ma come dicevo, non è questo il punto. O per lo meno: non è solo quanto potrà chiedere Scaglia di risarcimento e quanto gli riconosceranno i giudici. Il punto è che se uno degli imprenditori più ricchi del Paese può essere messo ingiustamente in carcere per un anno e accusato di un reato inesistente, chi verrà più in Italia a fare l'imprenditore? Nelle scorse settimane Enrico Letta ha detto di voler attirare gli investimenti esteri per rilanciare il Paese. Ma gli investitori stanno alla larga da un posto che fa un uso tanto facile della custodia cautelare. Perché dovrebbero venire? Per finire in cella al primo sospetto, costretti magari a rimanervi come sta capitando ai Riva dell'Ilva da un anno e più? E allora rifaccio la domanda: quanto costa in termini economici la giustizia ingiusta? Quanto incidono sulla voglia di restare in Italia o di non venirci i provvedimenti dell'autorità giudiziaria? Io penso parecchio. Se Letta vuole far tornare gli imprenditori e magari trovarne di nuovi, il funzionamento dei tribunali è l'argomento numero uno. In Italia ci sono 15 mila detenuti in attesa di giudizio, cioè circa un quarto del totale: non dico che siano tutti Scaglia, ma dovrebbe bastare un innocente dietro le sbarre a muovere il premier e il suo ministro della Giustizia. La riforma non si può più rinviare. E neppure ogni volta si può usare l'alibi che se si interviene si fa un favore a Berlusconi...  Maurizio Belpietro [email protected]

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