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Renzi ha un'idea sul lavoro. E la Camusso l'affosserà

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Dopo 15 anni persi in discussioni, anche da sinistra si propone la riforma dell'articolo 18 per rilanciare l'occupazione. Ma il neo segretario non ha fatto i conti con i sindacati

Andrea Tempestini
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Matteo Renzi ha un'idea per rilanciare il mercato del lavoro. Secondo indiscrezioni di stampa la trovata consisterebbe in un contratto per i neoassunti che preveda il tempo indeterminato ma non l'articolo 18. La proposta era già stata anticipata qualche giorno fa durante una puntata di Porta a porta dal guru economico del nuovo segretario del Partito democratico, il deputato Yoram Gutgeld, ma a quanto pare ora è diventata il cardine del patto per il lavoro che il Pd presenterà entro un mese. Al progetto starebbe lavorando l'intero cerchio magico del sindaco di Firenze: oltre a Gutgeld, l'economista Filippo Taddei,  la giovane responsabile per il lavoro, Marianna Madia, e quello cui compete il Welfare, Davide Faraone. Un pool supervisionato da Maria Elena Boschi, la «giaguara» della Leopolda, come è stata ribattezzata dopo la sua uscita pubblica in tacchi a spillo leopardati.  Il contratto a tempo indeterminato senza articolo 18 non eliminerebbe quello con la tutela anti-licenziamento, ma vi si affiancherebbe. In pratica, pare di capire che per facilitare le assunzioni dei giovani, nel Pd vorrebbero sperimentare una formula che consenta di cacciare i dipendenti senza rischiare il reintegro ma solo l'indennizzo. Una proposta che scavalcherebbe la riforma Fornero, lasciando in vita i contratti a progetto, il lavoro con partite Iva e ogni altro sistema introdotto dalla legge Biagi. Tutto ciò per consentire alle aziende di poter scegliere la soluzione più flessibile per le proprie esigenze e, allo stesso tempo, spingere le imprese a creare nuovi posti di lavoro senza temere che l'assunzione sia più indissolubile del matrimonio. Tutto bene, dunque? Sì e no. Bene perché se davvero Renzi si facesse paladino del contratto a tempo indeterminato, ma senza la clausola di reintegro in caso di licenziamento, supereremmo in un colpo solo quindici o forse venti anni di arcaiche discussioni. È dai tempi del governo D'Alema che si dibatte della necessità di porre mano all'articolo 18. Il primo ad accennarne se non sbagliamo fu proprio l'ex presidente del Consiglio approdato da Botteghe Oscure a Palazzo Chigi: peccato che poi gli sia mancato il coraggio di tradurre in atti ciò che aveva pensato. Dopo l'ex segretario Ds fu la volta di Silvio Berlusconi, che nel 2001 cercò di rimettere mano alla legislazione del lavoro, con i risultati che tutti sappiamo: 3 milioni in piazza e l'esordio della carriera politica di Sergio Cofferati. Forse perché tenuto a battesimo da una maggioranza di centrodestra all'epoca nessuno della sinistra volle sentir parlare di un contratto senza articolo 18. Anzi: all'idea di assunzioni con tutele differenti i progressisti inorridirono, accusando il governo di voler creare lavoratori di serie A e nuovi assunti di serie B. Neppure la sponda di Confindustria, con l'allora presidente Antonio D'Amato, consentì di arrivare al traguardo, perché il blocco Ds-Rifondazione comunista insieme con la Cgil si mise di traverso. La cancellazione dell'articolo 18 per i neo assunti non ha fatto molti passi avanti neanche in seguito. Quando con il ministro tecnico Elsa Fornero la questione tornò d'attualità, ci pensarono Susanna Camusso e il Pd di Pier Luigi Bersani a rimetterla in soffitta, così l'esecutivo dei professori partorì un obbrobrio legislativo che se possibile ha ulteriormente scoraggiato le assunzioni, rimettendo la decisione del reintegro ancor più nelle mani dei magistrati.  È un bene dunque che, seppur con quindici anni di ritardo, Matteo Renzi riprenda in mano il tema dei contratti senza articolo 18, perché questo non solo dà una scossa al mercato del lavoro, ma ci riavvicina un po' all'Europa, della quale di solito prendiamo solo ciò che ci garba, ma mai il resto, soprattutto se ha a che fare con la flessibilità. Cosa c'è di male, dunque? Semplice. La sensazione che il neo segretario del Pd abbia fatto i conti senza l'oste, cioè con la Cgil, la quale è vero che non è riuscita a impedire l'elezione di Renzi alla guida del Botteghino nonostante che i suoi vertici fossero schierati con Cuperlo, ma sul tema del lavoro resta l'azionista di maggioranza del partito. I giovani turchi che il sindaco di Firenze ha messo alla segreteria non rappresentano l'elettorato del Pd, né hanno presente gli umori che su temi come il lavoro e la precarietà si respirano a sinistra. Oltre ad arrivare in ritardo, a sinistra arrivano senza pensare alle reazioni che la riforma scatenerà. Insomma, rischiamo di discutere per mesi di qualche cosa che non si farà, dimenticando quello che invece si può fare, come ad esempio ridurre la burocrazia che grava sulle imprese. Il sindaco di Berceto ieri su Libero ha mostrato quanta carta richiede la macchina dello Stato per dipingere un viadotto. Per raccontare norme e adempimenti a carico di chi lavora servirebbero chilometri di carta. È troppo chiedere di cominciare da lì? di Maurizio Belpietro @BelpietroTweet

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