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Perchè è giusto non mettereun tetto agli stipendi

Lezione da Berna: sì alla lotta alla Casta, non al diritto di guadagnare. Così vincono merito e mercato

Matteo Legnani
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No, i ricchi non devono piangere. Nemmeno in Svizzera. Abbiate pazienza: oggi mi tocca un discorso impopolare. In effetti sarebbe stato assai più facile scagliarsi contro i malvagi figli di emmenthal, sarebbe stato divertente additarli al pubblico ludibrio per il fatto che hanno rigettato senza pietà il referendum contro gli stipendi d'oro. Già sento nelle orecchie l'urlo della piazza inferocita: «Li vedete? Sono amici dei potenti, difendono i loro forzieri pieni d'oro». Sarebbe stato facile disegnare, come hanno già fatto i giornali, i top manager delle multinazionali che brindano al successo con ostriche e champagne. «Ha vinto la casta, hanno vinto i privilegiati». Sarebbe stato assai più  semplice, avrei ricevuto pure qualche applauso. Ma non lo farò. Perché penso, al contrario, che dalla Svizzera sia arrivato ancora una volta un messaggio di civiltà. Questi nostri vicini tutti cioccolata e Longines, questi nipotini di un Rolex minore, ebbene, hanno dimostrato ancora una volta di essere precisi non solo quando fanno gli orologi o si travestono da Gugliemo Tell: infatti usano il referendum senza trasformarlo in gogna, pur abbondando di voti popolari non cedono mai alla pancia della piazza. Socialisti e verdi avevano chiesto di porre un tetto alle retribuzioni dei top manager: in nessun caso, se avessero vinto i sì, avrebbero dovuto essere 12 volte superiori allo stipendio medio dei dipendenti. L'intera Confederazione era stata tappezzata di cartelli e striscioni con lo slogan numerico 1:12, che è bello da vedere, forse anche da raccontare. Ma sbagliato da applicare. E infatti gli svizzeri lo hanno respinto al mittente con una percentuale molto elevata di no (65,3 per cento dei votanti), quasi uniforme in tutti i cantoni (eccetto proprio il più italiano, il Canton Ticino). E adesso già sento alcuni lettori che borbottano sottovoce: ma cosa scrivi, Giordano? Già li sento allineati, a loro insaputa, con i grandi giornali, già li sento a dire che è uno scandalo che l'amministratore delegato della Roche guadagni, per esempio, oltre 12 milioni di euro l'anno, cioè 261 volte lo stipendio medio dei suoi sottoposti. Già li sento inveire contro i nostri privilegiati, i ricchi di ogni razza e colore, coloro che guadagnano tanti soldi mentre i cittadini normali lottano contro la fame. È il discorso su cui hanno cercato di far presa anche i socialisti e i verdi in Svizzera, è il discorso che fanno i grillini da noi. Ma  un discorso che noi non possiamo e non dobbiamo fare. Per un motivo molto semplice: c'è una barriera precisa tra la lotta contro la casta (principio quanto mai liberale) e la voglia di far piangere i ricchi (principio quanto mai rifondarolo). Non dobbiamo dimenticarlo. E la denuncia contro i privilegi non può mai, in nessun modo, diventare denuncia contro il legittimo diritto a guadagnare secondo quanto stabilito dalle regole di mercato. Il problema non è quanto uno incassa, ma se uno si merita quel che incassa oppure no. Il problema è la meritocrazia. E stabilire un tetto agli stipendi (come volevano fare in Svizzera, come vuole fare qualcuno anche da noi) è contrario a ogni principio di meritocrazia. Diciamolo in altro modo: non importa quanti soldi finiscono nelle tasche del signor Roche al 27 del mese. Importa sapere se lui, quei soldi, se li è guadagnati. Perché se uno crea altri posti di lavoro, ricchezza, opportunità per tutti, ebbene merita di essere ricompensato. E pure bene, o benissimo. Vorrei averne tantissime di persone, anche nel mio Paese, da ricompensare lautamente perché producono tanto benessere, oltre che per sé, anche per gli altri. Meglio che avere persone che il benessere lo distruggono soltanto. Pensateci: togliere la possibilità di guadagnare bene, anche di diventare ricchi, significa togliere benzina al motore del progresso economico e sociale. Significa ricadere nei principi di quell'economia socialista che dappertutto ha portato solo miseria e distruzione. Non mi scandalizza, perciò, che ci sia qualcuno che prende 261 volte più dei suoi dipendenti. Mi scandalizza di più che ci sia qualcuno che prende milioni dopo averli lasciati a casa tutti, i suoi dipendenti. O dopo aver messo a rischio i bilanci della sua azienda. Mi scandalizzano i 6,6 milioni di euro di buonuscita con cui Franco Bernabè ha lasciato una Telecom piena di debiti. Mi scandalizzano i 3,6 milioni di euro di buonuscita con cui Enrico Cucchiani ha lasciato una Banca Intesa piena di guai. Mi scandalizzano i 40 milioni di euro che prese Alessandro Profumo per abbandonare una Unicredit in difficoltà o, andando ancora più indietro, i 6,7 milioni di euro che prese Giancarlo Cimoli e i 7 milioni di euro che prese Elio Catania, entrambi arricchiti dalle buonuscite dopo aver firmato bilanci delle Ferrovie dello Stato che avevano più voragini del Gran Canyon. Inutile continuare, di esempi ce ne sarebbero molti ma voi li conoscete perché questo giornale fa della lotta agli abusi e ai privilegi una delle ragioni della sua esistenza. E chi scrive, più modestamente, pure. Ma per questo, proprio noi, abbiamo il dovere di denunciare la sottile linea rossa che divide la sacrosanta lotta contro chi guadagna ingiustamente dalla lotta assai più pericolosa contro chi guadagna e basta. Noi non siamo contro la ricchezza. Noi siamo per la ricchezza. Vorremmo che ce ne fosse di più, e distribuita meglio. E siamo convinti che per produrne di più e per distribuirla meglio sia necessario seguire le leggi del mercato e della meritocrazia, non i parametri cervellotici (1:12 o 1:15 o 1:chissaché) partoriti da qualche mente  grillin-socialista di qua o di là dalle Alpi. Sono quelle leggi di mercato e di meritocrazia che vogliamo difendere quando attacchiamo i privilegi e i privilegiati. Dalla Svizzera ci arriva una lezione per non dimenticarlo. di Mario Giordano

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