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Vaccino, la Ue regala dosi al resto del mondo: "Siamo la farmacia globale", Ursula von der Leyen si compiace

Andrea Morigi
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Qualche Paese ha dovuto mettersi d'accordo con Israele, chi addirittura pietire dosi a San Marino e chi lisciare il pelo all'orso russo per riuscire a immunizzare la popolazione. Alcuni si sono rivolti anche a Bruxelles, per protestare contro l'iniqua distribuzione del siero fra gli Stati membri. E nel frattempo i contagi da Covid-19 crescono, gli ospedali sono stracolmi di malati e l'unica a non accorgersene è stata la presidente della Commissione Ue Ursula von der Leyen, secondo la quale «siamo la farmacia del mondo» perché, sostiene entusiasticamente, l'Europa «produce vaccini per gli europei e per il resto del mondo: abbiamo esportato 155 milioni di dosi di vaccini anti-Covid in oltre 87 Paesi in tutto il mondo da dicembre a oggi. Abbiamo esportato tanto quanto abbiamo consegnato ai Paesi Ue».

 

 

 

Illusioni

In visita allo stabilimento di Pfizer a Puurs, nelle Fiandre, in Belgio, la tedesca si cala nel ruolo di avanguardia: «Noi europei ne siamo orgogliosi, perché tutti sappiamo che nessuno sarà al sicuro finché non lo saremo tutti. E invitiamo gli altri a unirsi a noi». Di certo, non troverà dietro di sé gli Stati Uniti che, ai tempi del cosiddetto negazionista Donald Trump, avevano investito 10 miliardi di dollari sulla ricerca di un antidoto e ora stanno raccogliendo quanto hanno seminato. Tanto che il presidente Usa, Joe Biden, giovedì ha annunciato che il Paese ha superato la soglia delle 200 milioni di dosi di vaccino contro il Covid-19 somministrate nei suoi primi 100 giorni in carica alla Casa Bianca. Perfino il premier britannico Boris Johnson è riuscito a testare l'efficacia della Brexit perfino sulla salute pubblica. Ora che pub e teatri hanno riaperto, si fa beffe degli ex partner. Nel Vecchio Continente, invece, siamo fermi a 123 milioni e nelle più rosee previsioni degli eurocrati non si pensa di arrivare al 70% degli adulti vaccinati prima di luglio. Tutto perché l'intera estate 2020 è trascorsa in estenuanti trattative fra i legali delle grandi aziende farmaceutiche e i funzionari europei, che a un certo punto hanno perfino cercato di ottenere dalle case farmaceutiche delle semplici opzioni senza fornire né delle garanzie di acquisto, né quantitativi certi. Col risultato che l'anglosvedese AstraZeneca, per riuscire a rispettare gli accordi sui prezzi, ha delocalizzato parte della produzione in India, ritardando le consegne, mentre Stati Uniti, Regno Unito, Israele e perfino il Cile hanno acquistato a prezzi di mercato, strappando le dosi agli europei. A quel punto, l'Ue ha pensato bene di bloccargli le esportazioni. Mercanteggiavano su qualche centesimo di sconto a fiala, i rappresentanti della Ue, senza curarsi del fatto che ogni mese in più di emergenza sanitaria avrebbe fatto perdere altri 100 miliardi di euro nel perimetro comunitario e poco meno di 10 alla sola Italia.

 

 

 

Trattative

C'erano a disposizione i preparati voluti da Vladimir Putin. Ma lì si è frapposto il veto politico, mascherato da incomprensioni amministrative. È il 25 gennaio quando il fondo russo che gestisce la commercializzazione dello Sputnik V scrive all'Ema, l'agenzia del farmaco europea e il 29 presenta on line la domanda di registrazione del vaccino. Da Amsterdam non si degnano di rispondere fino al 15 febbraio, tre settimane più tardi. E ancora non si è concluso nulla. Meglio morti che russi. Tanto ci sono i vaccini americani di Pfizer, con la quota di partecipazione tedesca, di Biontech. Ieri guarda caso la von der Leyen ha confermato la prossima chiusura di un contratto da 1,8 miliardi di dosi proprio con loro. Arriveranno quando non ce ne sarà più bisogno.

 

 

 

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