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Cina, 11 dicembre 2001: così vent'anni fa ci siamo condannati a farci distruggere dal regime comunista

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Giuliano Zulin
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Due date sono fondamentali perla storia dell'economia: 1) 15 agosto 1971, ovvero il giorno in cui Richard Nixon decise che il dollaro non doveva più essere ancorato all'oro, con conseguenti svalutazioni continue del biglietto verde e in generale delle monete. 2) 11 dicembre 2001, il giorno in cui la Cina entrò nel Wto, ovvero l'organizzazione mondiale del commercio. Se il primo avvenimento ha sancito il dominio della finanza sull'economia reale, il secondo ha stabilito la crisi della manifattura occidentale, del lavoro. Fu Bill Clinton a spingere per l'ingresso di Pechino dentro un'organizzazione mondiale che può sembrare insignificante, ma che in realtà permette ai vari membri di scambiare merci senza pagare tanti dazi. Un autogol pazzesco per Europa e America. Eppure l'allora presidente democratico Usa, dopo un viaggio nel 1998 nell'ex celeste impero, fece pressione per aprire la porta ai comunisti cinesi. Non è che Clinton, alle prese con lo scandalo Lewinsky, fosse un benefattore. Negli anni '90 si pensava che, caduto il muro di Berlino, tutto il mondo sarebbe diventato liberal e pacifico. E l'imposizione di regole stringenti a Pechino avrebbe chiuso il cerchio: globalizzazione imperante, a guida americana. È accaduto il contrario.

 

 

 

LE TRASGRESSIONI

La Cina aderì felicemente, salvo poi non rispettare alcuna norma. - non ha mai seguito politiche di mercato, anzi. - gli stranieri non possono operare liberamente nella terra del Dragone, poiché serve sempre una partnership con una società cinese pubblica. - il regime continua a drogare l'economia con sussidi statali. - nessuna azione è stata intrapresa contro i furti di tecnologie ai danni dell'Occidente. - l'espansione commerciale (via della Seta) è oscura. Gli investitori che acquisiscono società in Europa o Usa solitamente hanno scopi politici. Però gli Stati Uniti hanno capito tardi (con Trump) di essere stati fregati, così come la Germania ha ammesso solo adesso che l'asse privilegiato Berlino-Pechino ha favorito più i cinesi che i tedeschi, alle prese ora con una reindustrializzazione e con scarse materie prime, tutte delocalizzate in Asia. Eppure agli inizi del millennio era quasi vietato mettere in discussione tutte queste aperture alla Cina. Si passava per retrogadi e antistorici. Confindustria e persino esponenti della destra italiana spingevano per andare a produrre in Asia. Prodi sosteneva che avremmo dovuto diventare il porto dei cinesi in Europa. Risultato finale: il Pil cinese è cresciuto di dieci volte in 20 anni. Noi, per fare un esempio, siamo rimasti fermi al 2000 (anche a causa dell'introduzione dell'euro).

 

 

 

ZERO SOLUZIONI

Non è però un tema solo economico, ma sociale. In questo ventennio, proprio perché dalla Cina arrivava di tutto a pochi spicci e proprio perché si incentivava moralmente la delocalizzazione, sono andati in fumo milioni di posti di lavoro in America e in Europa. Abbiamo perso tante piccole e medie aziende, abbiamo perso professionalità. Saperi e mestieri sono evaporati. E la colpa è anche nostra: abbiamo creduto che spendere meno per una maglia o un oggetto informatico ci rendesse più ricchi, mentre intorno a noi non vedevamo che chiudevano artigiani o commercianti. Non ci accorgevamo che, specie la provincia, si spopolava di attività, di socialità. Trump, cinque anni fa, è stato il primo - a livello mondiale - a dire le cose come stanno. Ovvero che i cinesi, bravi loro, ci hanno fregato. E tutti i liberal-progressisti, invece di spingere affinché Pechino chiedesse scusa e si mettesse in regola, hanno invece accusato Donald. Abbiamo visto quello che è accaduto col Covid. Wuhan era blindata, ma nessun dirigente di Pechino spiegò ai partner del Wto che servivano tante mascherine, tanti respiratori, più terapie intensive. L'abbiamo scoperto da soli, dopo migliaia di morti. Guai però ad accusare la Cina di non essere stata trasparente e collaborativa sul virus. Guai... E ora che si fa? Purtroppo non si vede una soluzione all'orizzonte. Viviamo invece in una nuova guerra fredda, economico-industriale: Xi Jinping vuole rifare l'impero, stavolta mondiale. E noi, Occidente, stiamo ripensando di tornare a produrre a casa nostra, provando a ricacciare indietro i comunisti. Abbiamo creato un mostro con le nostre mani e l'abbiamo messo in casa nostra. Se il ritmo di crescita cinese sarà quello dei prossimi 20 anni, siamo spacciati. Però Pechino ha un problema: la popolazione invecchia. Anche l'Occidente invecchia, ma attira giovani e cervelli. La Cina no, li fa scappare. 

 

 

 

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