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Russia, per i seguaci di Putin vivere è "sopravvalutato": ecco perché

Giordano Tedoldi
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 Il giornalista Vladimir Solovyov, considerato un "guru" dell'entourage di Putin, in una trasmissione dell'emittente di stato Rossiya 1 ha dichiarato che «La vita è grandemente sopravvalutata. Perché temere quello che è inevitabile? Alla fine andremo in cielo. La morte è la fine di un cammino terreno e l'inizio di un altro... vale la pena vivere solo per quello per cui si è pronti a morire». Secondo il sito della Ukrainska pravda, che ha diffuso la notizia, gli ospiti in studio avrebbero annuito e, corroborando la tesi di Solovyov, avrebbero affermato che «prima» (vale a dire quando ancora la Russia non aveva invaso l'Ucraina scatenando un conflitto che finora ha fatto circa 250mila morti da entrambe le parti, soldati e civili) i russi vivevano «giorno per giorno», mentre ora, beati loro, «hanno un obiettivo più alto», cioè crepare. Affermazioni, quelle di Solovyov, né nuove né inaspettate.

In tempo di guerra gli slogan sulla "bella morte", il sacrificio per un ideale, per la patria, si sprecano. È proprio in battaglia che i capi, i generali, i filosofi della morte, i nichilisti, gli esaltati, i fanatici, spiegano ai poveri soldati, cioè alla carne da cannone, che essere mitragliati, dilaniati da una granata, da un razzo, è «un obiettivo più alto» che starsene nel tepore della propria casetta, mentre fuori imperversa il gelido inverno russo, a trascinarsi in pantofole sul divano per vedere qualcosa alla televisione o ascoltare un po' di musica. Che smidollata vita da perdigiorno! Una vita «alla giornata», noiosa, mentre è molto più eccitante che la propria testa finisca ad arricchire la piramide di teschi che si trova effigiata proprio in un dipinto di un artista russo: «Apoteosi della guerra» di Vasilij Vereshchagin che, tra l'altro, morì al principio del secolo scorso nell'affondamento di una nave da battaglia, a bordo della quale si trovava per ritrarre immagini di guerra, durante il conflitto russo-giapponese. Sotto la piramide di teschi, la didascalia voluta dall'artista recita: «dedicata a tutti i conquistatori: passati, presenti e futuri».

 

 

 

TEORIA E PRATICA

Di certo per Solovyov e i suoi seguaci le cose stanno diversamente: solo la guerra dà dignità agli uomini. Questa convinzione ha la caratteristica abbastanza inquietante di essere propalata, in genere, da coloro che sul campo di battaglia non mettono mai piede, ma preferiscono scaldare gli animi da uno studio televisivo, o da qualche tribuna. D'altro canto, non bisogna sottovalutare l'efficacia di questo messaggio, o non si capirebbe come mai l'uomo continua a sterminarsi attraverso la guerra. Purtroppo, Solovyov e tutti gli altri che prima di lui hanno sostenuto la grandezza della morte rispetto a quel passaggio effimero che è la vita, dicono qualcosa che non è del tutto campato in aria, qualcosa che ha a che fare con la natura ambigua dell'essere umano. Qualcosa che, tra l'altro nell'anima russa, così intrisa di nichilismo (il primo "nichilista" è Basarov, l'eroe del romanzo "Padri e figli" di Turgenev, uscito nel 1862) risuona profondamente, e che la parentesi comunista ha temporaneamente represso.

Ora, liberati dall'ideologia socialista sovietica, finalmente i russi possono gridare liberamente tutta la loro connaturata pulsione di morte. Semmai deve stupire che, per così dire, le lancette della civiltà, in Russia, sembrino essere ritornate all'Ottocento, agli stessi slanci estremistici, alle stesse concezioni apocalittiche, come se durante il periodo dell'Urss il tempo si fosse congelato. Solovyov non avrebbe sfigurato in un romanzo di Dostoevskij, mentre oggi, almeno a noi occidentali, risulta un reperto del passato, irrecuperabilmente anacronistico. Ci sentiremmo spiazzati perfino a confutarlo; dovremmo seriamente argomentare a favore della vita? Ribadire che nessun ideale, nessun patriottismo può imporre - e sottolineiamo imporre, altro sono le libere scelte degli individui - il sacrificio della vita?

 

 

 

OSSESSIONE

Non c'è bisogno di leggere una poesia di Brecht o di vedere "Orizzonti di gloria" di Kubrick per ricordarci quanto sia ipocrita, strumentale e violenta la propaganda bellica, e di quali manipolazioni si serva. «Vivere per la morte», per usare una famosa espressione del filosofo Heidegger, è un pensiero alto, vertiginoso, ma che nasconde un'ossessione distruttiva. Anche il cristianesimo pensa che la vita su questa terra non sia che l'ombra di quella celeste, ma non invita i fedeli a farsi fuori, anzi celebra l'esistenza, proprio nella sua fugacità, quale un dono che si ripete «giorno per giorno», come già sapeva il pagano Orazio col suo «carpe diem». 

 

 

 

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