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Dmitrij Peskov? "Meschino, ridicolo e proprio per questo...": chi è davvero

Roberto Coaloa
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Dostoevskij affermava: «Noi siamo tutti usciti dal Cappotto di Gogol’». Dostoevskij pensava alla sua classe: gli scrittori russi. Ma chi scrive, rileggendo la novella, ha pensato a uno degli uomini più fedeli a Putin: Dmitrij Peskov. I media occidentali lo chiamano «il portavoce di Putin». Un uomo della propaganda del Cremlino, quindi, che ultimamente ha raccontato al mondo, che segue l’atroce guerra russa in Ucraina, le prodezze del suo capo, Putin, che lavora ventiquattr’ore al giorno, e i “nobili” ardimenti di suo figlio, Nikolaj Peskov, arruolato nella famigerata formazione banditesca Wagner.

 

 

 

Tecnicamente, però, dovremmo chiamare Peskov “addetto stampa”, che corrisponde meglio al titolo di «Putin's press secretary», in russo «press-sekretar' prezidenta Rossiyskoy Federatsii Vladimira Putina». Peskov incarna questa figura dal 22 maggio 2012. Ciò che lo rende un vero e proprio personaggio di Gogol’, involontariamente ridicolo, non è, ovviamente, il cappotto, ma un orologio. Per l’impiegato Akakij Akakievic, ops..., volevo dire: per l’attuale “impiegato” Dmitrij Sergeevic Peskov poiché i prezzi per comprare un orologio sono superiori alle sue possibilità, chiede alla sua novella sposa, la giovane Tatiana Navka, di regalarglielo. Secondo questa narrazione gogoliana, Peskov ha esibito orgoglioso, in pubblico, un esclusivo orologio Richard Mille da 670.000 dollari. Il tutto, ovviamente, proprio durante il matrimonio con la generosa Tatiana, quando giornalisti e fotografi hanno immortalato i particolari della cerimonia. Ah, se ci fosse ancora un Gogol’ in Russia! Quanto mi piacerebbe leggere la novella «L’orologio». La storia di un accessorio costato più del reddito dichiarato di Peskov per tutti i suoi anni di servizio come impiegato statale.

Tatiana, campionessa olimpica di danza su ghiaccio, è la terza moglie del povero diavolo Peskov, in realtà un subdolo furfantello, direbbero i vecchi russi (podlen’kij). Potremmo anche parlare dei suoi cinque figli, ma non abbiamo il coraggio d’esplorare un ambiente ancora più ridicolo, con ex mogli e figlie che aiutano il padre a vendere le suntuose proprietà fuori dalla Russia, prima delle sanzioni. Schiacciare a terra un personaggio alla Peskov regalerebbe a un nuovo geniale scrittore un misto di nausea e di estasi. Di Peskov, che allo scoppio della guerra tra Russia e Ucraina ha denunciato i russi che si oppongono al conflitto come «traditori», raccontiamo ancora un episodio per tratteggiare il profilo di un misero furfante.

 

 

 

Naval’nyi, leader dell’opposizione a Putin, nel 2020, fu avvelenato mentre mobilitava i suoi sostenitori a Tomsk in Siberia. Accadde che il Servizio federale per la sicurezza della Federazione Russa FSB, avesse inviato una squadra speciale nell’albergo di Naval’nyi, mentre lui era assente e avevano spalmato i suoi vestiti con un inibitore della colinesterasi in seguito identificato come un nervino del gruppo del Novichok, simile a quello usato contro Sergej Skripal’ a Salisbury. Naval’nyi restò in coma un mese. Si salvò per la prontezza dei medici. L’uso del nervino fu confermato da laboratori tedeschi, francesi e svedesi e dall’Organizzazione per la proibizione delle armi chimiche. Peskov, ovviamente, rilasciò generiche dichiarazioni sul fatto che la Russia non era responsabile della malattia di Naval’nyi. Putin, arrogante, arrivò a sostenere in una conversazione telefonica con Macron che Naval’nyi era un piantagrane, e chiunque avrebbe potuto avvelenarlo, anzi era addirittura possibile che fosse stato lui stesso a inscenare l’avvelenamento per avere maggiore visibilità.

Peskov, come d’abitudine, seguì nella voragine il suo capo, che, infine, fu costretto ad affrontare pubblicamente la questione durante l’annuale conferenza stampa a metà dicembre. Putin affermò che Naval’nyi lavorava per la CIA e che era naturale che l’FSB lo tenesse sotto controllo e, aggiunse, con un sorrisino: «Ovviamente, questo non vuol dire che dovesse essere avvelenato. Cui prodest? Se avessero voluto ucciderlo, avrebbero probabilmente portato a termine il lavoro» (la frase russa è ambigua: potrebbe significare se avessimo voluto o se avessero voluto). Era lo stesso odioso atteggiamento usato per Litvinenko e la Politkovskaja. Questa volta, però, Putin fu colto in fallo. Se l’FSB monitorava i movimenti di Naval’nyi, chiese un giornalista a Peskov, come mai non erano riusciti a impedire che venisse avvelenato? «Non è una domanda cui devo rispondere io», replicò l’addetto stampa, che chiuse immediatamente l’incontro, pallido come uno spettro. Oggi, armato di enormi mustacchi, continua a sostenere Putin anticipando «azioni di rappresaglia su Kiev quando lo si riterrà opportuno». Lo dice un fantasma, privo di orologio al polso. 

 

 

 

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