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Ucraina, il colonnello Magni: "Perché non può finire in pochi mesi"

Paola Natali
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La situazione in Ucraina preoccupa l’Europa e il mondo intero e quanto accaduto in Kosovo riporta l’attenzione in un teatro caldo, con il timore che la polveriera dei Balcani possa riesplodere. Parliamo con Roberto Magni, colonnello in congedo della Guardia di Finanza, che ha svolto molteplici incarichi internazionali, dal 2006 al 2011 nelle missioni ONU e UE in Kosovo, prima a capo dell’Unità Indagini Finanziarie, poi come Direttore FIU, l’organismo incaricato del monitoraggio delle transazioni economiche per finalità antiriciclaggio e antiterrorismo. Dal 2016 al 2021 presso l’Ambasciata Italiana a Vienna come esperto economico-finanziario con competenza su UNODC, OSCE, Austria, Croazia, Rep. Ceca, Slovacchia, Slovenia e Ungheria.

 

 

 

Quasi 500 giorni di guerra in Ucraina, il “cessate il fuoco” è ancora lontano?
«Il cessate il fuoco dipende sostanzialmente dalla volontà delle parti di trovare un accordo che, allo stato dei fatti, appare abbastanza lontano. In realtà la guerra è iniziata nel 2014. Il referendum svoltosi in Crimea è stato un chiaro segnale dell’insofferenza della Regione verso Kiev ma, a differenza di quanto accaduto in Kosovo, la comunità internazionale non ha ritenuto di rispettare l’autodeterminazione dei popoli e di riconoscerne la validità. Durante il mio periodo di servizio a Vienna, molte volte ho assistito a sessioni dell’OSCE nelle quali il delegato russo chiedeva il rispetto degli Accordi di Minsk, ma essi sono stati completamente disattesi».

Come valuta l’ipotesi di una controffensiva Ucraina?
«Temo che Putin non abbia alcuna intenzione di cedere e se il suo avversario vuole portare ad estreme conseguenze il conflitto i combattimenti si protrarranno. La Russia ha ampiamente dimostrato di avere un apparato militare imponente, talvolta poco efficiente perché elefantiaco, mentre diverse Nazioni che supportano l’Ucraina oggi lamentano scarsità di mezzi da destinare a difesa di quest’ultima, per cui tutto dipenderà da quanti e quali armamenti gli alleati di Kiev saranno in grado di fornire, ma anche dal crescente malcontento di diversi Paesi membri UE, Ungheria in testa, per un conflitto che sta generando un onere sempre più significativo su di essi».

La guerra è palesemente esplosa in territorio russo dopo gli scontri nella regione di Belgorod. Quali saranno gli effetti sul regime di Putin?
«Putin ha una leadership molto forte, frutto non sempre di consenso spontaneo, ma spesso di convenienza a stare “dalla parte del più forte”, a mio avviso l’aver portato il conflitto sul territorio russo potrebbe fargli addirittura guadagnare punti: la propaganda, infatti, farà passare il messaggio che la guerra contro l’Ucraina è ancor più giustificata».

Qual è la sua analisi sulla situazione in Ucraina e la gestione del conflitto?
«Purtroppo non vedo a breve la fine del tunnel, perché appare sempre più chiaro che da ambo le parti non vi sia una volontà seria di sedersi al tavolo delle trattative di pace, martoriando ulteriormente una terra che da quasi dieci anni si trova vittima di un conflitto. Di certo la frattura tra il regime ucraino e i russofoni della Crimea e del Donbass appare attualmente insanabile; essi non accetteranno di tornare sotto Kiev e Mosca non intende, anche per motivi di prestigio personale, abbandonare le Regioni occupate, per cui senza la comune pressione della comunità internazionale, i contendenti non arretreranno dalle loro posizioni».

 

 

 

In questo momento la tensione nei Balcani, preoccupa l’Europa. Concretamente cosa sta succedendo in Kosovo?
«Il primo pensiero va a ciò che è già successo, ovvero ai disordini di due settimane fa, e ai militari feriti, ai quali formulo i miei migliori auguri. Il Kosovo è soltanto una delle zone dei Balcani in cui i problemi di convivenza tra le diverse etnie, che covavano da lungo tempo, non sono stati completamente risolti. A febbraio 2008, quando il Parlamento di Pristina dichiarò unilateralmente l’indipendenza, le minoranze non accettarono tale decisione ed il problema, anziché essere affrontato con buona volontà da ambo le parti, venne nascosto come la polvere sotto il tappeto, sperando che il tempo lenisse le ferite. Ma è accaduto il contrario, specialmente nelle quattro municipalità del nord, a maggioranza serba, che da sempre anelano a riunirsi alla madrepatria. In passato ci furono tentativi di risolvere l’impasse con uno scambio di territori ma poi non se ne fece nulla. L’attuale governo kosovaro intende portare avanti il processo di “normalizzazione” della situazione sul suo territorio, ma tale volontà si scontra frontalmente con chi si rifiuta di riconoscerne l’autorità, affermando che il territorio sia tuttora soggetto alla risoluzione 1244 del Consiglio di Sicurezza dell’ONU, dove la parola indipendenza non era scritta in nessun comma».

Vede altri rischi?

«Preoccupa l’arrivo dell’esercito serbo al confine con il Kosovo, perché come dico da molti anni il fuoco cova sempre sotto la cenere e, se la comunità internazionale dovesse abbandonare il presidio sul territorio, l’ipotesi di riprendersi la Regione con la forza non mi sento di escluderla completamente, anche se sarebbe una scelta folle e suicida, sul piano internazionale, da parte di Belgrado». 

 

 

 

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