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Materie prime, pax americana addio: scoppia la guerra fredda

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Gianclaudio Torlizzi
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Non bisogna essere dei fini osservatori per comprendere come gli equilibri geopolitici in vigore dalla fine della Seconda Guerra mondiale siano oramai saltati. Lo stesso attacco di Hamas contro Israele si inquadra all’interno di una serie di sconvolgimenti avvenuti negli ultimi anni che mettono in discussione la cosiddetta Pax Americana: il ritorno nel 2021 dell’Afghanistan sotto il controllo dei talebani, l’invasione russa dell’Ucraina, quattro golpe anti-occidentali in Africa, guerre civili in Sudan e in Etiopia, l’incursione dell’Azerbaigian nel Nagorno-Karabakh, rinnovate tensioni nei Balcani, bombardamenti a tappeto su civili inermi in Siria, azioni militari turche contro le forze curde appoggiate dagli Usa. Last but not least, l’aumento delle tensioni nel Mar Cinese Meridionale tra le Filippine, sempre sostenute da Washington, e Pechino. Al suddetto scenario si aggiunge ora una nuova guerra in Medio Oriente di cui si sta cercando faticosamente di scongiurarne l’escalation. In quest’ottica lo scoppio della pandemia ha avuto un grande, paradossale, merito: quello di aver destato l’Occidente dal senso di falsa sicurezza frutto dell’eccessiva finanziarizzazione dell’economia, sfrenata delocalizzazione industriale e zelanti politiche di decarbonizzazione.

OPPORTUNITÀ REGALATE
Tre elementi, questi, che hanno indebolito strutturalmente le economie statunitense ed europea, decretandone il declino, e dunque offrendo a Paesi non democratici, come Russia, Cina e Iran, un’eccezionale opportunità per rivendicare nuovi spazi di influenza geostrategica. Tanto per fare un esempio, mentre infatti le politiche di Stati Uniti ed Europa degli ultimi anni sono sostanzialmente ruotate nell’escogitare improbabili criteri ESG (il cui effetto immediato è stato quello di aver alimentato la crisi energetica, creando così i presupposti dell’attuale processo di de-industrializzazione), Pechino dava il via a una capillare azione di colonizzazione mineraria in Africa e Asia nonché a un aumento della capacità di raffinazione di petrolio e metalli e produzione di semiconduttori. Secondo uno studio pubblicato dal Center for Strategic International Studies (CSIS), la Cina è il Paese che investe maggiormente in politica industriale (agevolazioni fiscali, sussidi, credito a tasso inferiore rispetto a quello di mercato): l’1,73% del Pila fronte del magro 0,39% del Pil degli Stati Uniti. Dall’analisi sui sussidi alle imprese cinesi emerge come i maggiori beneficiari dei sussidi siano le aziende di software, hardware, automobili, trasporti e semiconduttori. Non sorprende dunque se la quota Usa della produzione globale di semiconduttori sia dunque scesa dal 37% nel 1990 al 12% nel 2020, mentre la Cina è cresciuta al 15% nel 2020 con l’obiettivo di arrivare al 24% entro il 2030.

 



OSTACOLI
Certo, rispetto a qualche anno fa oggi la consapevolezza in Occidente di dotarsi di una politica industriale è decisamente più sentita e in quest’ottica si spiegano provvedimenti recenti varati in Usa e Europa come l’Inflation Reduction Act e il Chip Act. Ma la strada sarà senza dubbio irta di ostacoli, perché è proprio sul controllo delle risorse e dunque sulla militarizzazione delle materie prime che si baserà l’azione di sabotaggio da parte dei governi di Mosca e Pechino. Un primo segnale era giunto dal fronte russo prima dell’aggressione all’Ucraina con insolite riduzioni dei flussi di gas. È stato solo grazie a un inverno caldo che si è scongiurato il peggio, anche se è stato proprio per l’impennata dei prezzi delle materie prime che la BCE ha alzato violentemente i tassi, dando il via a una profonda recessione nel comparto industriale che si estenderà anche nella prima parte del 2024. Ora è il turno di Pechino, che pochi giorni fa ha annunciato restrizioni all’export di grafite, fondamentale nella produzione di batterie elettriche. Decisione che arriva come ritorsione dopo la nuova serie di restrizioni all’export di chip da parte di Washington e che fa seguito a simili provvedimenti presi in agosto su gallio e germanio, fondamentali per molte applicazioni militare. 

Molteplici sono dunque gli ambiti in cui si combatte questa nuova guerra fredda. Un altro, non meno importante, è sulle infrastrutture energetiche. Sebbene le indagini non siano state chiuse, è forte il sospetto delle autorità estoni e finlandesi come dietro il sabotaggio del gasdotto Balticonnector vi sia la longa manus di Mosca e Pechino. Che cosa accadrebbe se a finire sabotati fossero i gasdotti che collegano Algeria e Libia all’Italia (da cui dipendiamo per quasi il 40% dei consumi)? È questa la ragione per cui a ottobre si è assistito a un balzo del +30% del prezzo del gas: ossia l’inserimento di un premio geopolitico sul prezzo della molecola. Davanti a queste minacce l’Occidente, la cui aderenza alla realtà è stata obnubilata dal politically correct, sembra in bambola: il fallimento di provvedimenti non al passo con i tempi come il price cap e le sanzioni sul petrolio russo rappresentano la certificazione di quanto inesperte siano le classi politiche occidentali davanti alla nuova realtà.

PERICOLI INTERNI Ma i pericoli non arrivano solo dall’esterno. L’entrata in vigore del CBAM (carbon border adjustment mechanism) infatti, pur di proteggere un ristretto nucleo di imprese a monte della filiera, rischia di distruggere il comparto della trasformazione (che rappresenta la dorsale del Paese), alimentando quel processo di deindustrializzazione che sembra inarrestabile. Siamo dunque condannati a soccombere? No, ma per tornare in rotta è imperativa una maggiore presa di coscienza delle dinamiche globali in atto da parte dei decisori politici nell’obiettivo di fare sintesi delle istanze di vari stakeholders puntando all’interesse del Paese e non a quello (legittimo per carità) di poche lobby. Il tempo dei giochi è finito.

 

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