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Israele, i professori americani stanno con Gerusalemme

Spartaco Pupo
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Le agitazioni per la “resistenza” palestinese in alcune università italiane nascono perlopiù dall’iniziativa di gruppi di studenti, solo in qualche caso accompagnati da docenti devoti alla causa antisraeliana. Spesso si scimmiottano le manifestazioni inscenate nei campus statunitensi, dove però la protesta non è affidata unicamente al fervore degli studenti più radicali, poiché spesso suscita anche l’intervento un ampio numero di professori.  Nonostante i titoli euforici di alcuni giornali, come Repubblica, che il 2 novembre scorso, nell’enfatizzare il valore di una manifestazione anti-Gerusalemme ad Harvard, paragonava Hamas all’icona di Che Guevara, un dibattito serio in Italia stenta a prendere piede.

Qui i professori “impegnati” prediligono bersagli più facili, come la riforma del premierato, la manovra del governo, il solito fascismo e altri temi che costano poco in termini di credibilità scientifica ma restituiscono molto in visibilità mediatica. E non è vero, come vorrebbero far credere quanti amplificano le proteste filopalestinesi, che i più prestigiosi campus americani sono schierati contro Israele. Un esempio tra i più eloquenti arriva dalla Columbia University, che vanta una lunga tradizione di studi sulla democrazia.

 

 

Il 28 ottobre poco più di 100 docenti di questa che è la più importante università newyorkese hanno sottoscritto un appello in favore dell’attacco terroristico di Hamas del 7 ottobre, qualificandolo come “risposta militare” a un regime che occupa illegalmente il territorio palestinese, come certificato, a loro dire, «dall’Onu e sostenuto da diverse organizzazioni per i diritti umani». La dura risposta dei colleghi della stessa università che la pensano diversamente non si è fatta attendere. Una settimana dopo, ben 462 docenti (più del quadruplo) hanno firmato un documento in difesa della democrazia israeliana e di ferma condanna dell’attacco di Hamas, un «vergognoso crimine di guerra».

Si tenta di legittimare – scrivono – «un’organizzazione che non condivide nessuno dei valori fondamentali della nostra università: democrazia, diritti umani e stato di diritto». «La legge di guerra – continuano – fa una netta distinzione tra la morte e le sofferenze tragiche ma accidentali, da un lato, e il deliberato attacco contro i civili, dall’altro. Dubitiamo che taluni giustificherebbero simile atrocità se fosse diretta contro i cittadini di una nazione diversa da Israele». In conclusione si condanna l’antisemitismo dilagante nel campus. Fin qui nulla di così particolare, a parte l’enorme differenza numerica tra le sottoscrizioni, che in democrazia non è un dettaglio. Normale dialettica intellettuale, si direbbe.

 

 

Ciò che stupisce, invece, è che tra le 462 firme dei professori schierati in difesa di Israele non c’è quella di Nadia Urbinati, l’illustre professoressa italiana naturalizzata statunitense che insegna Teoria politica proprio alla Columbia. Il suo nome, in verità, non figura neanche nell’appello minoritario pro-Hamas, ma, considerati i temi a lei molto cari, come la democrazia, la rappresentanza politica, Condorcet, Rousseau, Mill, Rosselli, ecc., sorprende la sua indifferenza alla reazione indignata della stragrande maggioranza dei colleghi pro-Israele, tra cui spiccano noti scienziati e filosofi della politica come Robert Y. Shapiro, Jeffrey R. Lax e Ester Fuchs.

Eppure in Italia la professoressa è tra i politologi più loquaci. Quasi quotidianamente pontifica dalle colonne di Repubblica, L’Unità, IlFatto Quotidiano, Corriere della Sera, Domani e Left. Il suo è anche un volto televisivo familiare per le numerose comparsate negli studi di La7. Tanto che agli italiani il pensiero della Urbinati sulla crisi mediorientale è chiaro: Hamas è come Netanyahu perché entrambi coltivano “piani speculari” (così li chiama), e le vere vittime sono i palestinesi. Legittimo, per carità. Ma che fine ha fatto la difesa della democrazia rappresentativa tanto decantata nei suoi scritti? Mistero. Come indecifrabile è quest’eccesso di impegno nel paese d’origine cui segue un assoluto mutismo in quello che l’ospita come docente. Speriamo almeno che la lezione di democrazia dei 462 professori della Columbia in qualche modo arrivi anche agli studenti italiani.

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