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Cina, questa volta le sirene del Dragone non incantano gli Usa

Federico Punzi
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Nel 2017 il presidente cinese Xi Jinping fu accolto dalle élite di Davos, celebrato come alfiere della globalizzazione e del libero commercio, quindi della pace tra i popoli, in alternativa al “cattivone” Donald Trump, appena eletto, con la sua agenda protezionista. Almeno su questo, la storia ha dato ragione a Trump: il suo successore Joe Biden ha inasprito le politiche commerciali verso la Cina, limitando le esportazioni di tecnologia avanzata.

È la cosiddetta “guerra dei chip” che più di ogni altra cosa teme Pechino, perché ostacola i suoi sforzi per colmare il gap tecnologico con l’Occidente, rischiando di rallentare, se non fermare la sua ascesa economica e militare, mettendo quindi in discussione le sue ambizioni egemoniche.

A San Francisco, Xi aveva l’evidente scopo di ripetere con i big dell’economia statunitense quella operazione del 2017. All’esclusivissimo ricevimento presso l’Hyatt Regency non mancava nessuno. Più che attraverso il dialogo diretto con Joe Biden e i vertici dell’amministrazione, infatti, il leader cinese punta a ottenere risultati corteggiando il mondo del business Usa. Non solo per arrestare il disengagement di molte aziende e attrarre investimenti esteri, calati del 9,4% su base annua (136 miliardi di dollari), ma anche per farsi aiutare nei rapporti con Washington. Allettandoli con rinnovate opportunità di business, spera di incoraggiare i ceo a spendere la loro enorme influenza sull’amministrazione Biden- alla quale come sappiamo molti di loro sono vicini anche politicamente- per rimuovere gli ostacoli al flusso di tecnologia avanzata vitale per la crescita economica e militare della Cina. Controlli sempre più stringenti sugli investimenti cinesi, limitazioni alle esportazioni di alta tecnologia verso Pechino, misure «che hanno gravemente danneggiato gli interessi legittimi della Cina», si è lamentato Xi con Biden.

 

Dal loro punto di vista, le grandi compagnie Usa non vogliono trovarsi in mezzo alle tensioni tra le due superpotenze, quindi hanno due opzioni, non per forza di cose alternative: o uscire, disinvestire dal gigante asiatico, o esercitare pressioni sulla Casa Bianca per allentare queste tensioni. Ed è su questa seconda che Xi punta. Ha cercato quindi di alleviare le paure americane, assicurando che non c’è alcun piano per «sorpassare o sostituire» gli Stati Uniti. Ma lo stesso concetto di una Terra «abbastanza grande per entrambi», Stati Uniti e Cina, uno dei più ricorrenti del leader cinese, se da una parte suona distensivo, dall’altra implica che la Cina sia già alla pari degli Usa e che questi debbano accettare di condividere la leadership mondiale con una potenza di pari grado. Coerentemente, Xi chiede che Washington smetta di “contenere” la Cina e riconsideri le sue relazioni con Pechino «nel contesto delle trasformazioni globali» (tradotto: non siete più soli al comando, siamo in due).

 

LA GOCCIA E LA PIETRA
In fondo, la strategia cinese non cambia. È sempre quella della goccia che scava la pietra. È l’arte di combattere senza combattere. Xi non vuole rompere l’ordine internazionale, ma trasformarlo a piccoli passi. Addormentare l’America, per toglierle lo scettro e farlo lentamente scivolare verso Pechino senza che abbia i riflessi pronti per reagire. Per questo, al di là delle parole, Pechino non ha ancora iniziato ad agire come attore responsabile e fattore di stabilità. Non ha speso la sua influenza né sulla Russia né sull’Iran. Al contrario, continua a sfruttare a suo vantaggio le aperture e le debolezze dell’ordine liberale, senza alcun tipo di reciprocità. A sfruttare le pretese “sfide globali”, come i cambiamenti climatici, per rafforzare la dipendenza economica. A sfruttare ogni crisi che si presenti, come l’aggressione russa all’Ucraina o l’attacco di Hamas a Israele, per logorare il potere americano.

Ma se guardiamo oltre l’apparenza, i 40mila dollari per sedersi al tavolo con Xi, gli applausi scroscianti tributati al leader cinese, i tempi sono cambiati. Sebbene con ritardo rispetto alla politica, il mondo del business su entrambe le sponde dell’Atlantico sta cominciando a rendersi conto degli effetti di lungo termine delle politiche predatorie del Dragone. Dopo una prima fase della globalizzazione in cui lavoro a basso costo e un mercato immenso sembravano offrire opportunità illimitate alle aziende occidentali, ora si comincia a intravedere chi ne trarrà i maggiori benefici nel lungo periodo. Per esempio, l’industria automotive tedesca si sta accorgendo che la conversione forzata all’elettrico apre le porte all’invasione di auto cinesi. Non solo, gli interessi economici che consigliavano rapporti buoni e aperti con Pechino sono entrati in conflitto con la sicurezza nazionale. In questi anni è mutato profondamente anche l’ambiente economico in Cina. 

La stretta ideologica di Xi Jinping sull’economia, un apparato di sicurezza interna sempre più repressivo e invadente, i problemi ancora non risolti dell’economia cinese e il rischio di una crisi di sistema, hanno raffreddato gli entusiasmi. Molte aziende statunitensi hanno iniziato a ridurre la loro esposizione verso la Cina e a reindirizzare le catene di approvvigionamento. Persino Apple, una delle più dipendenti dalla produzione cinese, ha iniziato a rivolgersi a Paesi come India e Vietnam. Resisteranno questa volta alle sirene cinesi?

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