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Islanda, l'eruzione del vulcano: quando la natura ci riporta sulla terra

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Giovanni Longoni
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Le immagini in arrivo dall’Islanda del vulcano Svartsengi che rigurgita lava sulle circostanti lande, già di per sè poco ospitali, hanno colpito tutto il mondo. Qualcuno ha ricordato l’eruzione dell’Eyjafjallajokull, devastante almeno quanto pronunciare il nome della montagna. Era il 2010 e la nube rilasciata paralizzò per giorni il traffico aereo. La catastrofe naturale fu accompagnata da eventi tremendi, come la vittoria del Triplete da parte dell’Inter di Mou. 

Il magma incandescente stavolta ha costretto alla fuga gli abitanti della vicina Grindavik, 3mila anime che ne fanno la 12ª città meno spopolata del Paese. I grindavikesi a eruzioni e terremoti sono abituati e hanno reagito con nordica compostezza. La cittadina di pescatori è famosa a livello mondiale per la Laguna Blu, il centro termale a cielo aperto con più visitatori dell’isola, e l’unico evento di rilievo nella sua secolare storia risale al giugno 1627 quando venne attaccata dai pirati barbareschi: una dozzina di abitanti fu sequestrata e portata in catene fino al Marocco.

Erano i tempi in cui l’Islanda era il posto più fetente in cui vivere su questa Terra: gelo, terremoti, notte polare, luteranesimo, squalo fermentato e testicoli di montone come prelibatezze domenicali e ancora eruzioni e miseria; poi, quando pensavi di avere cinque minuti di tregua, ti arrivavano in casa gli antenati di Hamas. Era insomma il Paese cui pensava Leopardi quando scrisse il Dialogo della Natura e di un islandese, flagello di generazioni di liceali, che ha per argomento il fatto che tutto fa schifo e non c’è niente da fare per cambiare le cose. Lo spiega, a un islandese fuggito dalla sua isola in cerca di climi caldi e una vita migliore, un donnone che sostiene di essere la Natura. Poi arrivano due leoni e si mangiano l’islandese (e a questo punto dovrebbero avermi invalidato la Maturità). E che dire della Ginestra? Proprio il Vesuvio, il vulcano dello sterminio pompeiano, e il fiore «contento dei deserti» sono al centro dell’opera più disperata (ma vince sulle altre solo per un’incollatura) del poeta marchigiano. Nel secolo precedente a quello di Giacomo era invece il Terremoto di Lisbona e far scorrere fiumi di inchiostro, da Voltaire in poi. La natura matrigna, l’uomo impotente, eccetera. Sono trascorsi quasi due secoli dalla morte di Leopardi (1837) e tutto si è ribaltato: la natura è impotente, l’uomo è colpevole di tutti i disastri ambientali. Invece che poeti depressi e philosophes malevoli e geniali ci sono Greta Thunberg e Fulco Pratesi. Ma non disperiamoci: almeno gli islandesi se ne stanno a casa loro. 

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