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Onu, sprechi e scandali: disastri ambientali, accuse di abusi e tanti soldi

Claudia Osmetti
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Una decina di anni fa, durante un viaggio in Israele, sono salita sulle alture del Golan, in prossimità del confine siriano, nel punto d’osservazione di Bental. In lontananza si sentivano tonfi sordi, di scoppi e detonazioni: c’era la guerra in Siria. Lassù eravamo in pochi, io e qualche dipendente dell’Onu, ragazzi sui trent’anni con tanto di polo nera e la scritta “Un” sul petto.

Sono arrivati con la macchina bianca, quella che si vede nei film. Caschetto e giubbotto antiproiettile, zero: erano altri tempi, in Israele si stava al sicuro. Mi pare fossero irlandesi, ma non ci giurerei. Incuriosita (e un po’ preoccupata) da quei suoni poco tranquillizzanti, mi sono avvicinata a uno e gli ho chiesto: «Sono bombe, vero?».

Lui, col sorriso placido di un babbo il cui figlio gli ha appena domandato della cioccolata, mi ha risposto: «No, signora. Possiamo dire solamente che si tratta di rumori non naturali». Rumori-non-naturali.

DIPLOMATISMO
Racconto tutto questo non per una smania di protagonismo ingiustificato (per carità), ma perché è la rappresentazione plastica di come l’Onu, un’organizzazione nata per occuparsi della realtà, grazie al diplomatismo esasperato e al burocratismo di rimando e pure a quel pizzico di politically correct che non manca mai, dalla realtà ne sia oramai totalmente sconnessa. Al punto che non riesce neanche più a chiamare le cose col loro nome. Rumori -non -naturali: sta tutta lì, probabilmente l’Onu.

 

 

E non c’entrano niente le dichiarazioni sempre più surreali di António Guterres, non c’entra niente lo scandalo dell’Unrwa (un fulmine a ciel sereno solo per chi, fino a ieri, non s’è curato della pioggia), non c’entrano niente (o quasi) le posizioni vergognose assunte dalle Nazioni unite sulla questione israelo-palestinese negli ultimi 75 anni. È che l’Onu, da quel fatidico 26 giugno del 1945 che l’ha vista nascere, grandi passi in avanti non è riuscita a farne. Ad ammetterlo adesso, nel 2024, si rischia ancora uno scivolone perché l’Onu è una di quelle strutture percepite come “intoccabili”, che si propongono a difesa dell’umanità e che si prefiggono fini nobili e giusti.

Tutto vero, quantomeno sulla carta. La difesa delle donne, dei diritti umani, la lotta alla fame nel mondo. Battaglie sacrosante. Ma nella pratica?
Sfatiamo i tabù e (a differenza dell’Onu) chiamiamo pane il pane. Uno degli obiettivi principali, e dichiarati, delle Nazioni Unite è il mantenimento della pace nel mondo: 79 anni di attività e sono almeno una sessantina le guerre in corso sui cinque continenti.

D’accordo, non per colpa del Palazzo di Vetro (ci mancherebbe): ma non può dirsi nemmeno un traguardo raggiunto se si registra (come fa l’Acled, che è l’Armed conflict location and event data project, una ong statunitense che si occupa di mappare le ostilità planetarie) che nel 2023 i conflitti sono cresciuti del 12% rispetto al 2022 e del 40% dal 2020.

L’Onu dà lavoro, globalmente, a oltre 115mila persone e almeno 61mila funzionari (i cui salari variano in base alla posizione e agli anni di anzianità, come del resto dappertutto, e che possono partire da un minimo di circa 35mila dollari annui a un massimo di 120mila); solo nella sede di New York lavorano 10mila impiegati e unicamente il mantenimento degli uffici sull’East River valeva, già agli inizi del Duemila, un esborso di un miliardo di dollari all’anno; ha due tribunali penali e due corti speciali (una per la Sierra Leone e una per la Cambogia) volute dal Consiglio di sicurezza e 27 enti, tra alti commissariati e agenzie, istituiti direttamente dall’Assemblea generale. A fronte di questi numeri e degli scarsi (se non inesistenti) risultati ottenuti sul campo, l’Onu, seppur con le migliori intenzioni, più che la bandiera del mondo pacifico che si sognava dopo la sconfitta del nazifascismo, è un carrozzone (che fa rima con spendaccione) non esente, come si sarebbe portati a credere, da macchie sulla coscienza.

 

 

Oggi è l’Unrwa coi suoi dodici dipendenti pizzicati a sodalizzare un po’ troppo coi tagliagole di Hamas, tuttavia ieri era lo scandalo “Oil for food” (il programma Onu “Petrolio per cibo” che avrebbe dovuto fornire un aiuto umanitario all’Iraq martoriato nel dopo Saddam Hussein e che, invece, si è rivelato un pozzo di corruzione, frodi e imbarazzo per le Nazioni unite le quali, infatti, l’hanno chiuso senza troppe cerimonie nel 2003), prima ancora erano le accuse di abusi e sfruttamento sessuali (almeno 2mila in appena dieci anni rese note dall’agenzia di stampa Associated press nel 2017) e prima prima la bolla di Haiti (l’epidemia di colera del 2010 con più di 9mila morti accertati dopo che il fiume Meille, che la popolazione di Mirevalais usava per lavarsi, era stato contaminato dall’acqua di scarico di un accampamento dell’Onu che ospitava 454 caschi blu appena arrivati dal Nepal per assistere gli haitiani a seguito di un micidiale terremoto).

DIRITTI UMANI
A fine novembre del 2023, non bastasse l’elenco, all’Iran, che non è proprio lo Stato più liberale del pianeta, è stata assegnata, dal Consiglio delle Nazioni unite, la presidenza del Forum Sociale per i diritti umani. A proposito di diritti umani: l’Un Human right office nel 2020 ha messo a bilancio 349 milioni di fondi disponibili (più altri 224 arrivati grazie alle donazioni volontarie). Possibile che non si è riusciti a trovare qualcuno un tantinello più qualificato degli ayatollah che hanno massacrato Armita Geravand e Mahsa Amini e tutte le altre coraggiose ragazze iraniane che rifiutano il velo? Rumori-non-naturali, ecco.  

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