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Marta, depressa e in cura va in Svizzera per suicidarsi: la burocrazia desacralizza la morte

Francesco Specchia
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Deciderò io come e quando morire...». Pochi ricordano l’articolo sul Corriere della sera in cui Indro Montanelli, cronista invincibile nonché ateo perfetto, vedeva nel suicidio assistito un’estrema frontiera della libertà. Pochi lo ricordano, perché si tratta di memoria urticante in uno Stato laico attraversato da un cattolicesimo invincibile. In quel frangente - nel 2000 - Marco Cappato oggi psicopompo, allora era soltanto un radicale libero coi calzoni corti; ed era al di là da pronunciarsi la sentenza 242 della Consulta sul diritto di ognuno a scegliersi la propria morte.

Eppure, il grande dibattito sul suicidio nelle cliniche svizzere si ripropone, oggi, oltre Montanelli, nel caso di Marta, una 55enne torinese con impiego importante e bella famiglia, in ottima salute. Marta, però, era sempre più depressa a causa del figlio adolescente spirato per una malattia degenerativa. Marta era sotto cura psichiatrica che – a detta del marit o- la stava dissuadendo dal sentimento suicidiario, e da quella che clinicamente chiamano l’existencial suffering. Ossia quella «sofferenza esistenziale» basculante, pericolosamente, tra la contezza del depresso d’una qualità della vita senz’altro inferiore alla qualità della morte; e una contestuale rete di salvataggio fatta di solidarietà medica e soprattutto umana –amici, colleghi, parenti- in grado di sorreggere il peso del disagio.

Marta, all’insaputa dei suoi, ha pagato 10mila e 700euro; ha espletato le pratiche burocratiche necessarie; ed è andata a morire in una clinica specializzata a Basilea, il 12 ottobre scorso. Solo che nessuno della sua famiglia ne era stato informato. Non la cognata che già in passato l’aveva fermata spingendola alla terapia di sostegno, e non il marito che solo post-mortem, ha ricevuto dalla clinica una mail laconica -finita in spam- dove, in due righe si esprimeva formale cordoglio e si annunciava la spedizione delle ceneri della signora da mettere in salotto. Al marito residente in Canada, non è stato concesso di contattare la figura che aveva accompagnato la moglie al suicidio; né di vederne il corpo prima delle cremazione.

La clinica svizzera è, naturalmente, disseminata di professionisti: medici, avvocati e assistenti sociali. Un drappello di competenze al servizio del business e della pietas umana. Gli stessi professionisti,che nel 2018 accompagnarono all’ultimo addio l’ecologo australiano David Goodall che, toccati i 104 anni e in invidiabile forma fisica (partì da solo in aereo da Melbourne per varcare l’uscio della clinica), si tolse la vita perché aveva la «sensazione di averla vissuta troppo». Una battuta che oggi scandalizzerebbe qualsiasi Pro Life in grado di tenere –legittimamente- in ostaggio i parlamenti. Però, ora, i problemi sono altri.

C’è l’implacabilità della burocrazia clinica nell’approccio al decesso. A causa degli incroci di clausole, postille e regolamenti, non poteva essere rivelata alcuna notizia sul percorso intrapreso dalla donna. E ciò ha precluso ogni possibilità di intervento dai familiari i quali, appunto, già una volta l’avevano salvata. E questa stessa camicia di forza normativa, be’, vale anche per l’assenza di gratuità del suicidio assistito, dato che la pratica non ancora tecnicamente ben normata, non si codifica come «trattamento clinico» ma come scelta personale. Sicché, attraverso una ridda di moduli da compilare, di domande e risposte prestampate, di clausole di riservatezza, viene desacralizzata la morte.

Il filosofo Maurizio Mori, presidente della Consulta di bioetica onlus, commenta che quando subentra, appunto, la sofferenza esistenziale, essa dovrebbe essere lenita dalla «solidarietà umana, in aiuto al prossimo che vuole chiudere la vita. Solo che ammettere la morte volontaria sfilaccerebbe la solidarietà umana che è per la vita. È un concetto difficile da accettare». E accenna al fatto che servirebbe una legge che permetta la «morte volontaria», in un momento in cui la vita diventa un «bagnasciuga». Cioè: quando per qualsiasi motivo che non attenga l’inguaribilità (regolata dalla legge attuale ma sono anche le malattie mentali, quelle neurologiche e degenerative, e la depressione all’ultimo stadio), la vita non è più «buona vita», be’ dovrebbe essere normato il diritto di lasciare questa valle di lacrime senza bisogno di andare in Svizzera. «Al netto del nostro dolore ci chiediamo quanto questo sia stato giusto», si domandano i parenti di Marta. Una risposta che nemmeno il vecchio Indro, in fondo, sarebbe in grado di dare...

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