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Israele e Ucraina, pressioni curiose: l'Occidente confonde vittime e carnefici

Daniele Capezzone
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Una dose di veleno al giorno, e ci stiamo tutti abituando a una “normalità” agghiacciante: quella per cui sia nel male (attacchi mediatici, dichiarazioni aggressive, insinuazioni orribili) sia nel bene (auspici di distensione, appelli alla ragionevolezza, interventi dei cosiddetti “esperti”) tutte le inter locuzioni occidentali, quindi le nostre parole e le nostre attività diplomatiche, sono pressoché esclusivamente rivolte verso Gerusalemme e verso Kiev, quasi dando per assodato che l’Iran, Hamas e il Cremlino possano tranquillamente continuare ad agire indisturbati. L’aggredito è dunque trasformato in colpevole della situazione, qualunque cosa accada. Se già subisce, gli si chiede di subire ancora di più e in ultima analisi di arrendersi: e così faciliterà la “pace” (che è il nuovo nome - più elegante e “soft” - universalmente attribuito al concetto di resa). Se invece reagisce, allora è lui – ci spiegano i soliti – a provocare la mitica “escalation”, a “infiammare”, a “incendiare”.

In questo senso, il trattamento politico e mediatico riservato a Israele è letteralmente osceno: criminalizzazione di Netanyahu qualunque cosa faccia, popolazione civile israeliana ignorata nei suoi lutti, o al massimo descritta con un filo di compiacimento (in chi racconta) mentre attende la rappresaglia iraniana, di cui nessuno nemmeno discute se sia fondata. Si dice: ma Israele ha ucciso Haniyeh.

 

 

 

Vero: e tuttavia si omette di ricordare che si trattava del macellaio-capo di Hamas, l’inventore del 7 ottobre, il teorico del sangue (proprio e altrui) come necessità. Una belva, dunque: eppure non è mancato chi ha provato a descriverlo come un “pragmatico”, infliggendo un ennesimo sfregio alle vittime del pogrom da lui concepito. La stessa operazione di affettuosa cosmesi sta avvenendo anche per il nuovo capo del gruppo terroristico, l’ex vicemacellaio Sinwar: il solo fatto che la scelta sia caduta su di lui fa crollare la distinzione di cartapesta tra “ala politica” e “ala militare” di Hamas. Ma dalle nostre parti si continua a far finta di nulla, e a presentare anche lui come un interlocutore “normale”, al quale però non si chiede nulla.

A proposito di questioni che sarebbe urgente chiedergli: perché non si parla mai della sorte dei rapiti israeliani? Ricordate- tranne Libero e pochissime altre voci- qualcun altro, nella politica, sui giornali, in tv, che ne stia chiedendo con forza la liberazione? Se fosse vero che da parte di Hamas (e dei pupari dell’Iran) c’è una sincera volontà di de-escalation, il primo passo sarebbe quello di restituire alla libertà e alle loro famiglie quei poveri sequestrati. E invece no: quelli nemmeno ci pensano, e qui in Occidente nessuno sembra spingere o sollecitare in tal senso le belve islamiche.

Semmai, che si tratti di pensosi “analisti” o di generali in pensione (chissà perché, quasi sempre anti-occidentali nell’animo e nella forma mentis), la canzoncina è ogni voltala stessa: l’“incognita” - ci spiegano - sta nel comportamento di Netanyahu. E anche quando un’azione israeliana produce un doloroso risultato in termini di vittime civili palestinesi, nemmeno si prende in considerazione il fatto che Hamas stia usando la sua stessa gente come scudo umano. Niente: è subito “strage israeliana”, anzi “genocidio”.

 

 

 

IL FRONTE RUSSO

Stessa musica sul fronte russo-ucraino. Non riesco a ricordare (nel caso, mi scuso con gli interessati) una sola voce che abbia recentemente chiesto a Vladimir Putin di sospendere la sua operazione in Donbass e i suoi attacchi verso il resto dell’Ucraina. Vale la pena di annotare, a mero titolo di esempio, che esattamente un mese fa (significativamente, in coincidenza con l’imminente vertice Nato), Mosca decise di scatenare un’ennesima offensiva esplicitamente rivolta contro obiettivi civili, incluso – il che avrebbe dovuto suscitare orrore in tutti – un ospedale pediatrico ucraino.

E invece, perfino in quel caso, si riaprì l’indegno teatrino dell’offuscamento della verità. Dovemmo leggere quotidiani e ascoltare commentatori che non riuscivano a condannare nemmeno quell’atrocità russa, e si limitavano a registrare freddamente un rimpallo di responsabilità; e contemporaneamente assistemmo al solito circo di avvelenatori online, bot e troll, che mistificavano e accreditavano versioni false e di comodo, guarda caso sempre a favore di Mosca. Stadi fatto che alcuni non parvero vergognarsi di alimentare questo genere di giochetti nemmeno sulla pelle dei bimbi ucraini malati e bombardati da Mosca.

Al contrario, tornando alle ultime 48-72 ore, tutte le osservazioni più aspre (alcune anche fondate e appropriate, sia chiaro) sono state rivolte solo verso Kiev e verso Zelensky. Il quale – a scanso di equivoci – non deve andare esente da uno scrutinio critico anche severo: non è da escludere che alcune delle sue forzature di questi giorni siano legate anche a un suo tema di consenso discendente in patria. Così come è fattualmente vero che, se pure Kiev rilancia la sua controffensiva su territorio russo, diventa oggettivo un ulteriore incanaglimento del conflitto.

Tutto condivisibile, per carità: e quindi pure Kiev merita dissensi e critiche, se necessario. Ma quei dissensi e quelle critiche non suonano credibili in bocca a chi ha fatto un tifo sfrenato per l’aggressione russa, da febbraio ‘22 fino ad oggi. Curioso l’atteggiamento di questi osservatori: fiancheggiatori delle truppe di Mosca quando esse sono all’attacco, ma poi improvvisamente pacifisti se invece all’offensiva c’è Kiev oppure quando Mosca appare in grado di tenersi tutto quello che ha preso sul campo. In questi ultimi due casi, le ostilità debbono cessare: altrimenti, è sempre “escalation”.

Intendiamoci. Qui a Libero sappiamo bene quanto l’opinione pubblica sia - giustamente - stanca e preoccupata. Ma a questi comprensibili e umanissimi sentimenti non si può aggiungere un doppiopesismo furbesco, che peraltro ignora le ragioni e i torti, oltre che la diversa natura dei contendenti. E allora che conclusione se ne trae? Pugilisticamente parlando (vale per Kiev e per Gerusalemme contro i loro rispettivi avversari), è come se dalle nostre parti qualcuno più o meno consapevolmente- stesse cercando di tenere fermo un boxeur mentre l’altro picchia sempre più forte. Si vuole agire così? Chi vuole, lo faccia pure: a patto di sapere che si comporterà come una sorta di ala diplomatica (o mediatica) degli aggressori.

 

 

 

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