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Su Kiev e Medio Oriente l'America è in stallo

Daniele dell'Orco
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Sui due fronti principali di impegno americano in politica estera, l’Ucraina e il Medio Oriente, la situazione è in stallo. Non da oggi, ma soprattutto oggi. Man mano che le elezioni si avvicinano, oltre alla capacità pratica di prendere iniziative, l’amministrazione Biden perde anche potere persuasivo.

Non solo sui nemici, ma anche sugli alleati. Lo si è avvertito chiaramente durante la visita negli Stati Uniti del presidente ucraino Volodymyr Zelensky, che si aspettava dalla Casa Bianca il famigerato placet per l’uso di missili a lungo raggio nel territorio russo. In cambio, invece, ha ricevuto la promessa di aiuti militari per un totale di quasi 8 miliardi di dollari divisi in due tranche.

 

 

 

Sì, non sono briciole, e ricomprendono la fornitura di munizioni Joint Standoff Weapon (JSOW), cioè armi tecnologicamente avanzate con una gittata superiore ai 70 km, una batteria aggiuntiva di difesa aerea Patriot, missili intercettori, droni e munizioni aria-terra. Ma il problema, quando si snocciolano certe cifre, è riuscire a comprenderne l’impatto reale sull’esito del conflitto. La risposta, dopo quasi 1000 giorni di guerra, è tanto dolente quanto palese: insufficiente.

LA SITUAZIONE A KIEV

In Ucraina la cancrena continua, i russi avanzano seppur a caro prezzo nel Donbass e agli ucraini servono miliardi, ogni mese, solo per mantenere il conflitto così com’è. Questo clima da conflitto perenne sta diventando impopolare, eppure a pochi giorni dalle urne per i democratici sembra l'unico sentiero percorribile. C’è chi vorrebbe forzare la mano, non solo per l’uso di missili a lungo raggio, ma pure di altri F-16 e persino di truppe Nato. L’unico vero all-in in grado di far svoltare la guerra in favore di Kiev. Invece, più di quello che sta facendo, l’amministrazione Biden non può fare. Non ha tempo, e forse nemmeno consenso.

Se Kamala Harris sta provando a delineare una visione di politica estera ampia radicata in «ordine, regole e norme internazionali», avvertendo che i potenziali aggressori in giro per il mondo potrebbero essere incoraggiati da una vittoria di Putin, Donald Trump, ribadendo ancora l’ipotesi del «negoziato immediato in caso di vittoria», preferisce intercettare l’insofferenza degli elettori che di Ucraina non vogliono più sentir parlare.

Così come il suo vice, J.D. Vance, criticato da Zelensky in un’intervista al New Yorker per aver suggerito che l’Ucraina debba rinunciare a un po’ di territorio per porre fine alla guerra. Il presidente della Camera repubblicano, Mike Johnson, ha persino chiesto che Zelensky licenziasse l’ambasciatore ucraino negli Stati Uniti per via del tour organizzato con quest’ultimo in una fabbrica di munizioni in Pennsylvania (uno swing state forse decisivo) in compagnia dei democratici. Il fatto che i democratici, pur posizionati all'opposto, non possano fare di più per sostenere l’Ucraina sta a significare che, forse, sono consapevoli che a livello elettorale l’accelerata non sarebbe saggia.

In Israele lo scenario è molto simile, ma con casacche opposte: l’escalation continua, con i democratici che non riescono ad imbrigliare Benjamin Netanyahu e i repubblicani che vorrebbero dargli carta ancor più bianca e addirittura un supporto diretto. Il premier israeliano ha pronunciato un discorso di fuoco all'Assemblea generale dell’ONU, applaudito dallo Stato maggiore e dai suoi alleati di destra Itamar Ben Gvir e Bezalel Smotrich.

A Washington, però, è calato il gelo. Funzionari americani e francesi giurano di aver coordinato un piano di cessate il fuoco tra Israele ed Hezbollah proprio con Netanyahu: 21 giorni di tregua per spianare la strada a una cessazione delle ostilità con le milizie sciite. Bibi, invece, al Palazzo di Vetro ha annunciato di volerle spazzare via proprio come vorrebbe fare con Hamas a Gaza, mentre i suoi caccia colpivano i centri decisionali del "partito di Dio" nel centro di Beirut per provare ad incenerire il loro leader: Hassan Nasrallah. Il raid è riuscito solo in parte, ma il messaggio a Biden, Harris e Macron è arrivato forte e chiaro: Tel Aviv tira dritto.

ISRAELE PUNTA SU TRUMP

Netanyahu in sostanza ha scommesso su Trump vincitore, perché tra i suoi elettori non ha il problema dei pro-Pal come nel caso di Harris e perché, a differenza della melina sul fronte ucraino, nel conflitto mediorientale non vedrebbe l’ora di entrarci a gamba tesa per rendere inoffensivo l’Iran una volta per tutte insieme a tutti i suoi proxy, compresi gli Houthi che continuano il loro blocco del Mar Rosso. Pace in Ucraina e stabilizzazione (con le cattive) in Medio Oriente, permetterebbero ad una futura amministrazione Trump di concentrare tutte le risorse sul vero terreno di scontro geostrategico moderno: il Pacifico. Uno scontro che si potrebbe definire "futuro", e invece non è mai stato così imminente.

 

 

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