Netanyahu combatte anche per chi gli sputa addosso

Per molti occidentali è il nuovo Hitler. Per l’opposizione iraniana è "un vero amico". Ma soprattutto l’Europa lo tradisce e lui risponde difendendola
di Giovanni Sallustidomenica 15 giugno 2025
Netanyahu combatte anche per chi gli sputa addosso
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C’è da affrontare, palesemente, il caso-Netanyahu. C’è da aggiustare una narrazione così sbilanciata, così preconcetta, così caricaturale anche nei suoi grotteschi cortocircuiti storici e morali (il leader dello Stato ebraico come Hitler, oscenità la cui condivisone costituisce ormai il biglietto per entrare nella buona società), da sembrare ineluttabile. Conviene allora, per smontare il Moloch dell’impostura, muovere da spunti tangenziali, disponibili oltre il mainstream.

YaarGhadimi, una delle pagine della dissidenza iraniana più attive su X: «Il suo nome resterà per sempre nella nostra storia come quello di un vero amico dell'Iran e di un autentico paladino della pace». Di fianco, foto sua, di Bibi. Brutto affare, i nemici interni della teocrazia totalitaria, perché ti ricordano che quest’uomo, sei mandati alla guida dello Stato d’Israele, prima ancora di attaccare qualcuno (gli ayatollah per cui la rive gauche va in fregola dai tempi di Sartre e Foucault), sta difendo qualcosa, di molto prossimo alla libertà. La libertà non è un concetto, la libertà è anzitutto corpo, materia, possibilità di ripetere le tue giornate senza che i tuoi vicini abbiano come ossessione la tua sparizione dalla carta geografica, la soluzione finale già teorizzata dall’alleato del Gran Muftì di Gerusalemme, tal Adolf Hitler.

Doveva avere più o meno pensieri del genere in testa, il giovane Bibi, quando nel 1968 rientrò diciannovenne in Israele dalla Pennsylvania, per arruolarsi nella Sayeret Matkal, l’unità delle forze speciali israeliane. Rimediò un proiettile nel bicipite durante l’Operazione Isotopo, per salvare i passeggeri di un aereo dirottato dai terroristi di Settembre Nero, e soprattutto il lutto che coincide con il tormento della sua vita: la morte del fratello Yonatan, tenente colonnello che guidò l’Operazione Entebbe nell’omonima città ugandese, altra storiaccia di dirottamento e Terrore antisemita. E poi la guerra d’attrito, la guerra del Kippur, le operazioni speciali nel canale di Suez, ma il punto non è lo stato di servizio e nemmeno la biografia personale, il punto è che quella di Bibi è la biografia di una nazione, una nazione nata dall’abisso insondabile dell’umanità, il lager, e condannata alla guerra permanente, sempre da altri, sempre in quanto escrescenza (dis)umana da rimuovere. In questa condizione di precarietà ontologica che è il dramma stesso di Israele, Bibi ha imparato presto che bisogna essere pronti a fare «quel che deve essere fatto». «Netanyahu - Per costruire una pace sicura», era lo slogan della sua prima campagna elettorale del 1996 (per cui assunse Arthur Finkelstein, responsabile politico del Partito Repubblicano Usa, c’è un legame sentimentale tra Bibi e il Gop).

Per costruire una pace sicura, come sa chiunque non sia intossicato dal terzomondismo filokhomeinista, non può accadere, in nessun caso, che l’Iran, questo Iran nazi-islamista che mostra da lustri mappamondi senza Israele, giunga alla bomba atomica. «Abbiamo lanciato l’operazione Rising Lion, un attacco per la sopravvivenza di Israele. Questa operazione continuerà per tutti i giorni necessari a rimuovere tale minaccia». Quel che deve essere fatto, è il tono churchilliano che Bibi sta riuscendo a non dismettere dal 7 ottobre 2023, è quel che l’Europa ignava e pacifinta, sempre alla ricerca di un Chamberlain che la illuda, non gli perdona. Lui, invece, probabilmente non perdona a se stesso quel 7 ottobre.

La macchia della carriera pluridecennale di Bibi, il cigno nero, il crollo dell’inviolabilità sostanziale del suolo israeliano. A quel punto, poteva morire nella cronaca politica o raccogliere la sfida della Storia: ha avuto la forza di scegliere la seconda opzione. Aveva chiaro da sempre che la testa della piovra islamista, la mente e anche il portafoglio del pogrom, stava a Teheran. Ma si è dedicato anzitutto ad amputare le braccia, ha destrutturato quasi completamente Hamas in un caso lampante (anche se misconosciuto) di guerra giusta, ha inferto colpi mortali ai macellai di Hezbollah con il capolavoro dei cercapersone esplosivi e con l’uccisione di Nasrallah, ha lavorato per dare il colpo di grazia ad Assad, ha cancellato la continuità stessa della Mezzaluna Sciita. E, come ha detto ieri, “al novantesimo minuto”, quando ormai era manifesta la «corsa delle squadre nucleari iraniane per creare bombe atomiche per distruggere Israele», ha mirato direttamente alla testa. Premendo il grilletto anche per noi, e non è iperbole retorica. La gittata dei missili iraniani arriva fino a Roma, che per chi coltiva il mito dell’apocalisse islamica non è una capitale qualsiasi, è il cuore millenario della cristianità.

Piaccia o no, Netanyahu è un contemporaneo Defensor dell’Occidente, rinnegato dalle élite occidentali attanagliate dal senso di colpa per aver ereditato la civiltà di maggior successo della storia umana. Bibi non ha tempo per simili contorcimenti privilegiati, Bibi è in prima linea e guarda la testa della piovra. «Gli ayatollah non sanno cosa gli aspetta», ha rincarato ieri. Tu sì, Bibi. Quel che deve essere fatto, anche per chi ti sputa in faccia, anche per noi.

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