La superiorità della democrazia è racchiusa in un paradosso, nella sua imperfezione congenita. Lo Stato d’Israele, da quando esiste, è un paradosso al quadrato, quello di un lembo di terra democratica circondato da vicini che hanno come scopo esistenziale la sua rimozione. È il miracolo di una democrazia in stato di guerra permanente, e quindi un miracolo sommamente imperfetto, sempre esposto alla possibilità dell’errore che può essere anche orrore. Come quei proiettili sbagliati usciti da un tank israeliano e finiti sulla Chiesa della Sacra Famiglia di Gaza City, unico avamposto cattolico nella Striscia sequestrata dai tagliagole nazi-islamisti di Hamas. La prima a sapere (e a dichiarare) che quei colpi erano sbagliati è la leadership politico-militare di Gerusalemme: l’Ufficio del premier Benjamin Netanyahu ha subito annunciato che «Israele sta indagando sull’incidente e resta impegnato nella protezione dei civili e dei luoghi sacri».
Tentativi, errori e tentativi di ripararli: è l’essenza fallibilista della democrazia (non troverete niente del genere, ovviamente, nell’agire di nessun nemico dello Stato ebraico). Tuttavia, Netanyahu sa bene che la procedura corretta da sola non basta, che conta anche la simbologia, soprattutto quando orizzonti di fede e scenari di guerra si sovrappongono indebitamente. È per questo che ieri ha preso il telefono, e ha chiamato Sua Santità Leone XIV. Con le parole della sala stampa vaticana: «Il Santo Padre ha ricevuto, nella residenza di Castel Gandolfo, una telefonata da parte di S.E. il Sig. Benjamin Netanyahu in seguito all’attacco militare dell’esercito israeliano che ha colpito la chiesa della Sacra Famiglia a Gaza, causando la morte di tre persone e ferendone altre».
L’errore ha violato un tempio della cristianità, Bibi chiama direttamente il suo massimo rappresentante in Terra. È un messaggio potentissimo, è la frequentazione del limite e della mancanza come caratteri dell’umano (ed è esattamente il motivo per cui la Perfezione teocratica e jihadista è dis-umana). Anche perché la comunicazione è stata totalmente sfrondata da qualunque ritrosia diplomatichese.
Netanyahu, ha fatto sapere il suo Ufficio, ha espresso «il rammarico di Israele per il tragico incidente in cui delle munizioni vaganti hanno accidentalmente colpito la chiesa della Sacra Famiglia a Gaza», aggiungendo di aver inviato le sue più sentite condoglianze alle famiglie delle persone ferite. Il leader della democrazia in guerra (non per volontà sua, ma per statuto irrinunciabile del nemico) si carica della tragicità dello sbaglio, la rende fardello pubblico, china il capo di fronte all’erede di Pietro, colui sulla cui pietra viene edificata qualsiasi chiesa, anche quella impensabile e quindi eroica di Gaza. E china il capo di fronte alle persone travolte dall’errore, membra, sangue, corpi concreti. Non c’è la contabilità utilitaristica della morte che connota i nemici di Israele («Ci serve il sangue dei bambini palestinesi», ripeteva Haniyeh, ripeteva Sinwar, ripetono tutti i gerarchi di Hamas), c’è la consapevolezza della singolarità e della non riscattabilità del dolore.
Non solo: Netanyahu non ha svilito il suo atto nel mero formalismo, ha invitato il Papa in Israele e soprattutto gli ha riconosciuto il ruolo a cui tiene di più, quello di messaggero e catalizzatore di pace. «Siamo vicini ad un accordo», è stata la confidenza del primo ministro durante il colloquio, riferita alle trattative che avanzerebbero in Qatar. Il condizionale è obbligatorio, visto che Hamas ha fatto già saltare il banco all’ultimissima mano innumerevoli volte (non a caso ieri sera si è premurata di far sapere che Israele sta «bloccando» l’accordo, in un eterno ritorno propagandistico).
Resta che il leader d’Israele parla col Papa del possibile percorso di pace, e che (contraltare nient’affatto secondario) il Papa parla con lui, non con l’altra parte, non con i professionisti del Terrore. Non c’è equivalenza, c’è l’Occidente dentro una telefonata, e nella tragedia è © RIPRODUZIONE RISERVATA una grande notizia.