Hiroshima, l'uomo s'inventò la fine del mondo e trasformò l'apocalisse in realtà

Il 6 agosto 1945 il lancio dell’ordigno, tre giorni dopo quello su Nagasaki. Il racconto della storia di Nagai, medico cristiano che diede la vita per il suo popolo
di Giordano Tedoldimercoledì 6 agosto 2025
Hiroshima, l'uomo s'inventò la fine del mondo e trasformò l'apocalisse in realtà

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Ottant’anni fa, il 6 agosto 1945, esplodeva la prima bomba atomica. Il bersaglio era la città giapponese di Hiroshima. Alle otto e un quarto di mattina, l’ordigno, che esplose a circa 600 metri dal suolo così da massimizzare la distruttività (una tra le tante idee fornite durante la progettazione della bomba dal grande scienziato John von Neumann), sulla verticale sopra l’ospedale Shima, produsse energia pari a circa quindici chilotoni. Le vittime furono più di 150mila. Tre giorni dopo ci fu la seconda bomba su Nagasaki, 70mila morti, e nove giorni dopo, il 15 agosto, l’imperatore Hirohito annunciò la resa del Giappone. Il bazar atomico di William Langewiesche (Adelphi, pag. 182, 12 euro), apparso per la prima volta nel 2007 e ora ripubblicato in edizione economica, è una lettura indispensabile per chiunque voglia capire qualcosa del mondo emerso da quelle detonazioni. Un mondo in cui le potenze si sono affrettate a accumulare arsenali nucleari dove i 100 chilotoni sono il limite minimo. Su New York, una bomba di quella potenza farebbe 600mila morti. Ma ce ne sono anche di più potenti.

È il principio della Mad, Mutual Assured Destruction, Distruzione reciproca assicurata, che ha tenuto in stallo i blocchi nemici nella guerra fredda. Langewiesche (che è scomparso poco più di un mese fa) però pubblicava il suo libro solo sei anni dopo gli attentati dell’11 settembre, quindi si poneva un nuovo problema: va bene, grazie alla Mad, gli Stati forse eviteranno di distruggere la Terra, ma cosa accadrebbe se un gruppo terroristico si fabbricasse o procurasse la bomba? Se una nazione attacca un’altra nazione, la ritorsione è facile, perché c’è un territorio con la sua capitale, le città: bersagli. Ma un gruppo terroristico è diffuso, disperso, imboscato. Senza contare che, a differenza dei capi militari, i terroristi sono pronti a immolarsi.

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Con grande spregiudicatezza e realismo, Langewiesche racconta come potrebbero farsi la bomba «anche in cantina». Come potrebbero trasportarla, farla esplodere, e magari anche salvare la pelle. Il problema maggiore sarebbe accumulare il materiale fissile – uranio arricchito o plutonio – ma esistono, dice Langewiesche, dei mercati neri – i bazar atomici, quasi tutti nell’Asia centrale – dove qualcosa si trova.

Magari non la quantità sufficiente per una massa critica, o per rivaleggiare con le testate delle potenze, ma si può cominciare il lavoro. I buchi nei sistemi di controllo – specialmente nel caos immediatamente successivo al crollo dell’Unione Sovietica – erano e sono ancora talmente tanti che c’è da ritenersi fortunati che non si sia registrato alcun attentato terroristico nucleare. Langewiesche racconta anche la corsa al nucleare del Pakistan, conclusasi con successo alla fine degli anni Novanta soprattutto per opera del carismatico scienziato Abdul Qaader Khan, considerato in patria l’eroe che ha difeso la patria dal nemico giurato, l’India, che aveva l’atomica dalla metà degli anni Settanta. La storia del Pakistan è istruttiva perché era una nazione povera, ma, come disse Zulkifar Ali Bhutto, allora ministro degli Esteri (poi sarebbe diventato primo ministro) «i pakistani avrebbero avuto la loro bomba a costo di mangiare, da quel momento in poi, solo erba». Il club del nucleare non è esclusivo: ci aspetta un futuro in cui, presto o tardi, tutti avranno la fine del mondo “in cantina”.

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