Trump? La scelta dell'Alaska, il principe Gorchakov e l'impero americano

Chissà cosa aveva davvero in mente il presidente Usa quando ha lanciato a Putin la proposta dell'incontro ai confini del mondo
di Marco Patricellidomenica 10 agosto 2025
Trump? La scelta dell'Alaska, il principe Gorchakov e l'impero americano

4' di lettura

Diavolo d’un Donald Trump, chissà cosa aveva davvero in mente quando ha lanciato l’esca avvelenata proponendo a Vladimir Putin un summit tête-à-tête in Alaska, per fare il punto sulle crisi del mondo. Messa così, sembrerebbe un gesto di cortesia, con l’offerta di un luogo geograficamente a mezza strada con la Russia, distante appena l’ottantina di chilometri dello Stretto di Bering, anche se il Tycoon è a casa sua e si muove da padrone. Messa in altra maniera sembrerebbe invece la parafrasi della nota vignetta in cui un padre orgoglioso mostra al figlio la prospettiva delle sue proprietà e gli dice «un giorno tutto questo sarà tuo».

Nella prospettiva storica la frase suonerebbe però a Putin o come «tutto questo un giorno era tuo», oppure «tutto questo oggi poteva essere tuo». L’Alaska, la frontiera nordica degli Stati Uniti da cui è separata dal Canada, il baluardo missilistico settentrionale, la miniera infinita che sotto il ghiaccio cela incommensurabili ricchezze, una volta era una colonia dell’impero degli zar. E infatti si chiamava America russa. Poi Washington e Pietroburgo si misero d’accordo per una compravendita. Il ministro degli esteri russo era un volpone di straordinaria abilità, il principe Aleksander Mikhailovich Gorchakov, capace di rabbonire, sedurre, assicurare e accarezzare l’antagonista; ipnotizzava attraverso la duttilità a fare concessioni mostrando sempre comprensione e disponibilità. Ma poi il principe portava avanti la politica di espansione e raccoglieva i frutti diplomatici e militari che cadevano morbidamente nelle sue trappole.

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Non è forse un caso che il suo odierno successore sulla stessa poltrona, Sergej Lavrov, lo abbia in cima alle sue preferenze politiche, e prova pure a imitarlo. In fin dei conti ogni grande nazione ha avuto un solo Cavour, un solo Bismarck, un solo Churchill, e tanti epigoni velleitari intenzionati a rinverdirne le gesta. Gorchakov giocò mezza Europa e si prese una bella fatta di oriente a passettini e accelerazioni, da burattinaio che sapeva muovere ad arte i fili. La colonia dell’Alaska rientrò nel gioco di mettere fuori causa l’assai più temibile Inghilterra da mire di espansione in Nord America attraverso il confinante Canada, inserendo la variabile dei più modesti (allora) Stati Uniti, usciti pure indeboliti dai disastri della guerra di secessione in cui la Russia aveva apertamente appoggiato la vincente Unione. L’offerta di cedere un territorio spopolato e inospitale, in cui l’unico commercio redditizio era quello delle pellicce, ma a costi di mantenimento molto elevati, andava a solleticare le ambizioni americane di protagonismo continentale, in applicazione della Dottrina Monroe vecchia di quaranta anni riassumibile nel principio «l’America agli americani». Gli Stati Uniti, per diventare davvero grandi, hanno applicato la ricetta delle guerre di indipendenza e di annessione, e quella degli acquisti mercantili. Niente di nuovo sotto il sole del “Secolo breve”, e neppure sotto a quello dell’attualità. In epoca napoleonica Washington aveva raddoppiato la sua estensione territoriale comprandosi la Louisiana (molto più estesa dello stato odierno), in un giro perverso e segretissimo di passaggio dalla Spagna alla Francia in cambio del Ducato di Toscana. Un affare per tutti, ma soprattutto per gli americani in prospettiva futura, perché all’epoca le critiche parlamentari furono ferocissime.

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Niente, rispetto a quello che avverrà il 30 marzo 1867 con l’acquisto dell’Alaska, pagata a prezzo di saldo 7,2 milioni di dollari oro (l’equivalente di circa 150 milioni di euro di oggi), che finirono nelle casse dello zar Alessandro II in contropartita di oltre 1,7 milioni di chilometri quadrati. Alla cerimonia del formale passaggio di sovranità, il 18 ottobre, le truppe americane e le truppe russe erano schierate fianco a fianco: sarà lo stesso in Cina durante la rivolta dei Boxer del 1900, per la seconda e ultima volta. Chi aveva dunque guadagnato in questa gigantesca partita diplomatico-commerciale? All’epoca, per molti, fu un capolavoro dietro le quinte di Gorchakov, che si liberava di una inutile sterminata estensione di ghiaccio con pochissimi coloni e non eccezionale peso commerciale e portava in Russia liquidità preziose per i progetti di espansione in Asia centrale, diventata la direttrice della politica estera; ma ci fu anche chi intravide nella mossa di Washington una mossa perfetta per ribadire la non ingerenza degli europei negli affari americani, in attesa di diventare a sua volta quella grande potenza che al momento non era. Ma nessuno poteva immaginare quali ricchezze incalcolabili c’erano sotto a quella sterminata coltre di ghiaccio. Sarebbe bastato questo a farne l’affare del secolo, per il valore semplicemente stratosferico. 

E quando la polarizzazione del mondo dopo il secondo conflitto mondiale con l’inizio della guerra fredda tra Usa e Urss ne rivelerà anche l’insostituibile valore strategico, non ci saranno più dubbi di sorta. Inconsapevolmente il vero volpone fu nel 1867 il segretario di stato statunitense William Seward: la sua trama politica era altra, e lui era riuscito a completarla nonostante la forte opposizione interna, ma il resto era inimmaginabile. Lavrov continua a ispirarsi a Gorchakov, ma Putin difficilmente può essere d’accordo col suo ministro degli esteri sulla “neutralità” simbolica del vertice nell’ex colonia. L’Alaska è un rospo che deve ingoiare. Non è il primo, e se non chiude la guerra in Ucraina da vincitore non sarà neppure l’ultimo.