Quando a febbraio il presidente americano Donald Trump coniò l’espressione «riviera del Medio Oriente» riferendosi al futuro della Striscia di Gaza, sembrava per lo più una provocazione in puro stile trumpiano, l’idea spaccona di esportare il modello Mar -a -Lago, l’esclusiva residenza in Florida del tycoon, e un incisivo modo per ribadire il sostegno al primo ministro israeliano Benjamin Netanyahu, in quei giorni ospite della Casa Bianca. Come però hanno dimostrato i primi otto mesi di mandato, non era una semplice boutade: il progetto esiste, nero su bianco, e si chiama Gaza Reconstitution, Economic Acceleration and Transformation Trust, in breve GREAT Trust.

Una cosa in grande, un piano post-bellico che prevede l’istituzione di un protettorato amministrato dagli Stati Uniti per almeno 10 anni, durante i quali il territorio verrebbe riconvertito in un avanzato hub manifatturiero e tecnologico nonché in un resort turistico di lusso. Il progetto, che circola negli ambienti governativi impegnati a valutarne l’effettività, è riassunto in 38 pagine che sono state visionate dal Washington Post e tocca molti aspetti chiave, tra cui quello più delicato: la gestione della popolazione palestinese. Secondo quanto ha fatto trapelare il quotidiano, è previsto il trasferimento temporaneo dei due milioni di abitanti di Gaza con «partenze volontarie» verso altri Paesi o in zone di sicurezza durante le fasi di ricostruzione. Nei giorni immediatamente successivi alla prima dichiarazione di intenti trumpiana, l’amministrazione repubblicana aveva ridimensionato il tutto, mostrandosi perplessa sulla necessità di dispiegare o meno le truppe americane e sulla natura definitiva o temporanea del piano. Dalle carte emergono invece certezze. Il progetto include la partecipazione di partner internazionali come l’israeliana Gaza Humanitarian Foundation (GHF), sostenuta da Washington e Gerusalemme, e attiva nella distribuzione di cibo nella Striscia. La pianificazione finanziaria sarebbe affidata alla Boston Consulting, una delle più importanti società internazionali di consulenza, per raccogliere investimenti pubblici e privati per strutturare data center, impianti per produrre veicoli elettrici, resort balneari e grattacieli residenziali.

In un decennio, secondo le stime, il ritorno economico sull’investimento iniziale di cento miliardi di dollari sarebbe quadruplicato. In cambio dei diritti di riqualificazione, ai proprietari terrieri verrebbe offerto un token, un gettone virtuale per finanziare il trasferimento in nuove zone o riscattabile con l’acquisizione di una proprietà immobiliare in una delle nuove città «alimentate dall’intelligenza artificiale» costruite a Gaza. Ogni palestinese che decidesse invece di lasciare la Striscia riceverebbe un pagamento di 5.000 dollari in contanti, quattro anni di sussidi per l’affitto e un approvvigionamento alimentare di un anno.
PUNTO NEVRALGICO
Un punto nevralgico è proprio questo, non potrebbe essere altrimenti: il trasferimento della popolazione di Gaza. Il governo israeliano ha avviato colloqui con diversi Paesi per accogliere i gazawi: la lista comprende Libia, Etiopia, Sud Sudan, Indonesia e Somaliland. Ma la Libia è divisa tra due governi in continuo scontro, mentre l’Etiopia paga il prezzo di una lunga guerra civile. Il Somaliland invece non ha mai ottenuto un vero riconoscimento internazionale dopo aver dichiarato l’indipendenza dalla Somalia dopo la guerra civile del 1991. Tra le opere prospettate ci sono un’autostrada denominata “MBS Highway”, in onore del principe ereditario saudita Mohammed bin Salman (l’appoggio dell’Arabia Saudita è cruciale per stabilizzare la regione), una centrale di desalinizzazione dell’acqua e un impianto solare nel Sinai per fornire acqua ed elettricità. Mentre la fascia al confine con Israele ospiterebbe la zona industriale, quella costiera vedrebbe la realizzazione della “Gaza Trump Riviera”, con un «resort di livello mondiale» e isole artificiali, simili a quelle realizzate al largo di Dubai. Pareva una boutade, invece è tutto vero. Almeno su carta.
