Emmanuel Macron non perde occasione per mostrare i muscoli in politica estera. Convoca vertici a raffica per convincere i leader europei a schierare le truppe in Ucraina, sventola il suo arsenale nucleare per spaventare Vladimir Putin, scatena rappresaglie diplomatiche se qualcuno lo contraddice. Ma sul fronte interno la robustezza della Francia è un ricordo sempre più evanescente.
Gli amici continuano, in qualche modo, a dargli una mano. La connazionale presidente della Bce, Christine Lagarde, pur ammettendo che Parigi è ormai sotto monitoraggio per lo stato di pessima salute dei conti pubblici ed è stata superata dall’Italia per affidabilità, ha tenuto ad escludere che la Francia possa finire nel mirino del Fondo monetario internazionale, stile troika per la Grecia. Ieri un aiutino è arrivato anche dal governatore della Banca centrale francese, che ha di fatto consigliato al Parlamento di votare la fiducia il prossimo 8 settembre per non ritardare ulteriormente la cura da cavallo proposta dal primo ministro François Bayrou per ridurre il deficit di 44 miliardi nel 2026.
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Non è colpa di Giorgia Meloni se il debito pubblico francese è esploso negli ultimi anni arrivando a 3.345...Epperò le parole di François Villeroy de Galhau non risultano molto rassicuranti sulle condizioni del Paese. «Non c'è oggi», ha spiegato, «una soluzione facile, senza sforzi, per il risanamento dei conti pubblici. Ma più il nostro paese aspetterà per impegnarsi più il trattamento sarà doloroso». E ancora: «Ora più che mai è necessario affrontare il problema principale dell'economia francese: i nostri deficit e il nostro debito pubblico che sono eccessivi. Ignorarli ulteriormente non farebbe altro che alimentare l'incertezza tra famiglie e imprese e soffocare la nostra capacità di bilancio per il futuro». Insomma, se non siamo ancora al si salvi chi può, ci siamo parecchio vicini.
I segnali non mancano davvero. Dopo l’allineamento dei rendimenti tra i i titoli di Stato decennali francesi e quelli italiani, che ormai viaggiano intorno ai dieci punti (ieri lo spread si è chiuso a 12), come è accaduto alla Gran Bretagna, che pure lei non se la passa bene, i riflettori ieri si sono spostati su quelli trentennali, che sono solitamente utilizzati dal Tesoro per allungare la scadenza del debito e non subiscono forti oscillazioni. Ebbene, in una giornata, va detto, non entusiasmante per le obbligazioni mondiali (dai Treasury americani ai nostri Btp), i rendimenti (che salgono quando gli investitori scappano) degli Oat trentennali hanno superato il 4,5%. Un livello che non si vedeva dal 2011, nel bel mezzo della crisi dei debiti sovrani che ha terremotato l’Europa.
Tutta colpa dei conti che stanno andando a gambe all’aria? Certo, il deficit al 5,8% e il debito schizzato a 3.300 miliardi, circa il 114% del Pil, non tranquillizzano i mercati. Ma oltre al bilancio fuori controllo, a spaventare gli investitori è principalmente l’instabilità politica perenne provocata dalla pervicacia con cui Macron resta attaccato alla sua poltrona mentre il terreno gli frana sotto i piedi.
Altrimenti non si spiegherebbe quello che accade da questa parte delle Alpi. In un clima assai sfavorevole come quello di ieri, con i Treasury Usa schizzati sopra il livello di guardia del 5% e i trentennali britannici Gilt decollati al 5,7%, livello mai visto dal 1998, 27 anni fa, l'Italia, col debito vicino al 140% di Pil, una crescita cronicamente dello zero virgola e lo spread più alto dell'Eurozona, ha collocato 18 miliardi di euro di nuovi Btp a sette e 30 anni, spuntando premi contenuti e ottenendo una domanda da record.
L’emissione dei Btp - ad opera dei lead manager Bbva, Citibank, Deutsche Bank, Jp Morgan, Morgan Stanley- sul nuovo sette anni Novembre 2032 ha ottenuto uno spread di otto punti base rispetto ai titoli sul mercato, e di sei punti base sul 30 anni. Malgrado i rendimenti non stellari proposti al mercato, complessivamente le richieste sono state di quasi 218 miliardi di cui circa 110 miliardi per i titoli a sette anni, un record sui collocamenti sindacati, e 107 sul 30 anni, sui massimi di sempre.
Merito sicuramente di quella prudenza fiscale che ha prodotto il ritorno al dimenticato avanzo di bilancio, al percorso di riduzione del deficit che potrebbe portare già il prossimo anno a rivedere la soglia del 3%, chiudendo la procedura di infrazione, ai dati sul lavoro che non smettono di macinare record avvicinando per la prima volta l’Italia alle medie europee. Ma, come hanno più volte ricordato le agenzie di rating, che dal 2023 hanno sempre confermato e spesso migliorato i voti sul nostro Paese, a fare la differenza sono anche la stabilità politica, la credibilità e l’autorevolezza internazionale. Merci che evidentemente lo scalpitante Macron non riesce più ad offrire agli investitori.