Se non parlassimo di cose tremendamente serie come un paio di sanguinosissime guerre, ci si potrebbe perfino divertire nell’assistere al dispendio di energie mentali ed emotive che i migliori cervelli della sinistra politica e di quella mediatica stanno dedicando alla grande speranza (per loro) di un doppio spettacolare fallimento delle opportunità di pace a Gaza e, su un altro piano, tra Russia e Ucraina.
Così grande è stata l’umiliazione di vedere Donald Trump trionfante e gongolante tra Gerusalemme e Sharm El Sheik che ora è in corso una maxigufata di gruppo, una specie di esorcismo collettivo, un lugubre rito per scatenare energie negative. E su due fronti simultaneamente: quindi capite bene la drammaticità dello sforzo richie sto. Primo fronte: Gaza. Qui politici e media di sinistra tifano in modo sfrenato affinché la tregua salti. Sono mobilitati in permanenza “esperti” e “analisti” (gli stessi che non avevano capito niente prima) per spiegare come tutto sia scientificamente destinato a precipitare. Scuotono la testa, fanno sorrisini sarcastici, inarcano le sopracciglia: la verità è che hanno i nevi a fior di pelle, e non sono più in grado né di controllare né tantomeno di nascondere questa tensione.
Ora, anche un bambino capisce che l’intesa siglata la scorsa settimana va implementata, cioè va faticosamente tradotta in realtà, e non sarà certo una passeggiata. E il solito bambino vede bene i nodi e le criticità: come mettere Hamas in condizione di non nuocere, quale “governance” transitoria realizzare, come evitare che le personalità straniere (Blair in testa) facciano la parte degli alieni, dei marziani. Ma - appunto- si tratta di porsi in una prospettiva positiva e costruttiva: si è appena aperto uno spiraglio, e tutte le persone ragionevoli dovrebbero cercare di allargarlo, mica di farlo violentemente richiudere. E invece no: c’è una specie di cupa libidine da imminente rottura della tregua. C’è chi spera che sia Hamas a far saltare tutto, e chi si augura di poter scaricare la colpa addosso a Netanyahu: in genere, le due posizioni sono del tutto sovrapponibili.
Passiamo al secondo fronte: Russia-Ucraina. Qui il terrore è che al perfido Trump possa riuscire un secondo colpo di bacchetta magica. Non sia mai: i nostri “esperti” di sinistra potrebbero accusare quello che a Roma chiamano un “coccolone”, cioè un colpo apoplettico fulminante. E allora ecco i nostri infaticabili gufi di nuovo al lavoro: descrivendo il solito Trump bullizzatore di Zelensky, venditore anzi svenditore di pezzi di territorio ucraino, catturato anzi posseduto spiritualmente da Putin.
Per carità, anche qui le incognite sono numerose, e Trump ha effettivamente oscillato più volte negli ultimi sei mesi: ma non si vede la ragione per la quale - agli occhi del mondo - dovrebbe desiderare di passare come l’uomo che consentirà a Mosca di prendere a tavolino molto più di quanto abbia ottenuto sul campo di battaglia. Non foss’altro che per ragioni di ego (uso appositamente le categorie più care agli antitrumpisti in servizio permanente effettivo), Trump non ha solo bisogno di un accordo qualsiasi, ma di un buon accordo. Non del migliore in assoluto, ma del migliore possibile. Con realismo e saggezza.
E così a noi restano due sentimenti. Per un verso, come per tutte le persone normali, la speranza che in entrambi i teatri la situazione volga al meglio. Sembrava impossibile: e invece ora una possibilità c’è. Grazie a Trump, mica grazie ad altri. Per altro verso, il divertimento di assistere all’esplosione di una malattia contagiosa e perniciosissima. E’ la TDS, Trump Derangement Syndrome, come lo stesso Donald la chiama scherzandoci su. È la “sindrome da ossessione per Trump”, un oscuro morbo che agita i nervi e ottunde la mente, che rende pazzi, che trasforma i sinistri in soggetti bisognosi di robusti infermieri. Ma alla fine- ci chiediamo qui- una politica che si riduca a sperare che tutto vada a catafascio che roba è? Roba da matti, alla lettera.