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Gli Usa si ritirano, ma l'Iraq è ancora in guerra

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Quattordici autobombe, 64 morti e oltre 200 feriti. Il capo di stato maggiore iracheno: "Non siamo pronti a fare da soli"

Roberto Amaglio
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Quanto temuto si sta puntualmente realizzando. A pochi giorni dal ritiro dell'ultima brigata da combattimento Usa stanziata in Iraq, gli insorti e le forze anti-alleati stanno gettando il Paese in uno stato di confusione, mietendo vittime a un ritmo elevatissimo e dimostrando tutto il loro potenziale distruttivo. Guerra non finita – Il 25 agosto verrà ricordato proprio come la giornata in cui gli insorti hanno evidenziato le lacune della strategie di ritiro delle truppe americane e l'inadeguatezza delle milizie irachene. Oggi, infatti, almeno 14 automobili imbottite di esplosivo sono saltate in aria provocando la morte di almeno 64 persone e oltre 200 feriti. Colpite, ancora una volta, gli agenti di polizia e le reclute del nuovo esercito iracheno, i quali rappresentano l'obiettivo privilegiato degli attentati di queste ultime settimane. Gli attacchi più gravi sono avvenuti a Kout, a 160 chilometri a sudest di Baghdad, dove sono rimaste uccisi 15 agenti e 5 civili in un ufficio passaporti della polizia. Altre 90 sono rimaste ferite. Nella capitale, invece, un'autobomba è esplosa verso le 8 ora locale, le 7 in Italia, presso un posto di polizia nel quartiere di al-Qahira (nord), facendo 15 morti, tra cui otto poliziotti. Altre autobombe sono esplose nella città petrolifera di Kirkuk (240 chilometri a nord di Baghdad), a Bassora, nel sud, a Karbala (la città santa sciita a 110 chilometri a sud della capitale), a Dujail (60 km a nord di Baghdad) e a Muqdadiya, nella turbolenta provincia di Diyala. Un preoccupante picco di violenza, dunque, proprio mentre dalla Casa Bianca viene confermata la riduzione del contingente Usa a meno di 50.000 unità, le quali dal 1 settembre verranno utilizzate esclusivamente per l'addestramento delle milizie statali. Impreparati – Tuttavia, per quanto il ritiro fosse parte integrante del programma politico di Barack Obama, dall'Iraq accolgono male la notizia. Solo due settimane fa, infatti, il capo di stato maggiore iracheno, il generale Babaker Zebari, ha espresso i suoi timori per il ritiro delle truppe americane. “La nostra speranza è che fino al 2020 il nostro esercito possa essere affiancato dalle truppe americane. Fino a quella data, infatti, le truppe di Baghdad non saranno pronte a operare in piena autonomia e capaci di garantire la sicurezza necessaria allo sviluppo del Paese”. Nemmeno il ministro degli Esteri, Hoshyar Zebari, ha usato mezze parole per bocciare la strategia d'uscita degli Usa. "Assistiamo a una paralisi governativa, a un vuoto politico. E c'è stato il ritiro Usa. In queste condizioni i network terroristici possono proliferare e creare divisioni tra i politici, al fine di provocare il maggior caos possibile".

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