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Viktor Orban, il retroscena di Storace: sanzioni, così l'Europa sta sfruttando i suoi "ricatti"

Francesco Storace
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L'Europa dovrà tirar su un monumento a Viktor Orban, altro che "ricatti". Il premier ungherese semmai è diventato il portavoce di quelli che tacciono per ignavia. Lo sanno tutti che le sanzioni alla Russia si stanno ritorcendo contro i popoli europei, ma è comodo prendersela con lui. E giù bordate, additandolo come il diavolo che incendia e inquina il Paradiso comunitario.

 

Ricatto è la parola del momento ed è la più sbagliata da usare. Il diritto di veto in Europa è uno strumento a tutela dell'interesse nazionale ed è davvero paradossale, insensato, di pessimo gusto mettere sotto accusa chi è stato eletto dal suo popolo a pieni voti anche per rappresentarlo nella Ue. Semmai, ad essere ricattatoria è la pretesa di farlo fuori se non si adegua alle volontà altrui. Orban dice no? E noi gli togliamo i quattrini! Ladri dichiarati.

I giornaloni italiani si sono prontamente adeguati alla parola d'ordine di Bruxelles. Il calunniume nostrano è sempre disponibile quando arrivano i diktat da chi caporaleggia nella Ue. Orban ricattatore, dunque. Tutto questo perché l'Ungheria ha un leader che difende il suo popolo. Come se fosse proprio l'Unione Europea a dover "comandare" in terra magiara. Orban si è semplicemente fatto sentire e soprattutto ascoltare. Ha contribuito alla decisione. Ha fatto valere le ragioni del suo popolo. Sul petrolio, ad esempio, ha chiesto di tutelare chi non ha accesso al mare: quale estorsione ha commesso?

Così come va letta con serietà e proprio senza anatemi laici la questione legata al patriarca della Chiesa ortodossa, Kirill. Va ridotto in miseria? Se contro la religione si imbracciano armi sanzionatorie, come faremo a difendere i cristiani perseguitati nel mondo? Ah già, non li difendiamo affatto. Un ricordo personale. Se questo criterio - la politica che usa la religione come proprio strumento- fosse valso negli anni duemila non avrei mai dovuto autorizzare dalla regione Lazio la Chiesa ortodossa di Roma (che chiedevano da 200 anni). Quella firma fu salutata con giubilo a Mosca, la apposi dopo una trattativa con la Santa Sede (in discussione c'era una questione di non poco conto, l'altezza dell'obelisco loro rispetto al Cupolone "nostro"...). Il tutto nel rispetto delle varie credenze religiose. Se entriamo in guerra noi, facciamo espropriare il Vaticano dei suoi beni per la gioia di chi ama twitter e odia Cristo?

DIRITTO DI VETO
E poi, la questione del diritto di veto. Sull'ipotesi di abolirlo c'è un eccesso di enfasi propagandistica. In Italia non lo vuole chi non ha bisogno di voti per governare. È il caso di Draghi, è il caso del Pd. Ma non spiegano come si garantisce l'interesse del proprio Paese senza avere uno strumento che consenta di trattare seriamente con chi ha interessi contrapposti ai nostri. Quante volte nella sua storia europea l'Italia è stata costretta a impugnare quell'arma a difesa della nostra comunità?

E Orban vuole fare bene il suo mestiere. Non è casuale che il premier magiaro abbia amici in Italia, Matteo Salvini e Giorgia Meloni - almeno finora - che fanno dell'interesse nazionale una ragione identitaria prevalente sul diritto comunitario. È politica, non ricatti.

 

CONFEDERAZIONE
Con grande saggezza, l'ambasciatore Giampiero Massolo ha ricordato che l'Unione europea non è una federazione. «È una confederazione di Stati che mantengono un ruolo molto rilevante nei meccanismi decisionali. E sono Stati che hanno storie, tradizioni, sensibilità, opinioni pubbliche e sistemi istituzionali tra di loro differenti. Di questo va tenuto conto». Il diplomatico dice che al massimo si possono mettere assieme diversi Stati mossi dallo stesso obiettivo, ma pretendere di far fuori dalla Ue chi ha idee diverse non è una cosa facile da fare... E comunque alla fine della fiera, proprio Orban è in realtà diventato il vero portavoce dell'Europa. Risolve i problemi degli altri che sulle sanzioni non sanno come procedere... Dice bene il leghista Claudio Borghi: «Invidio Orban. Va in una negoziazione, dice di no, si fa come vuole lui». In Italia Borghi segnala due casi di approccio alle trattative in sede comunitaria (e non solo). Quello del Pd che «va in una negoziazione e dice di sì». Quello preferito dalla Lega, che «va in una negoziazione, dice di no, sale lo spread, i giornali strillano, le televisioni strillano, inquisiti, gli alleati tentennano...». Fantastico, no?

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